domenica 23 dicembre 2012

Mario Monti (Weimar Reloaded).



DI MAURIZIO BLONDET

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. 
Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità.

Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese». Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro»  (Il Tesoro e la via anti-debito).

Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori».
A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening. 
I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. Andiamo per ordine:
Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa. 
Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.
Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero.
Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio.
Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.
Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca.
La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina.
Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.
Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller).
Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza.
Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari. 
«Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra  (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).
Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto» . Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig).
La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.
L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto. 
Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig).
Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo».
Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.
Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore.
Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata permantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978).
Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i i salari.
Nel 1931, Bruening fece lo stesso:
per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%.
Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato.
La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi).
Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.
I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere «i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti.
«L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig).
In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler. E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1).
Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».



1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.

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