lunedì 29 aprile 2013

Il IV Reich e l'Italia

















Rivalutando il ruolo dell'industria pubblica nell'economia italiana, è possibile immaginare risposte alla crisi in cui ci hanno spinto l'euro (cui dedichiamo la copertina di Ae a maggio 2013), le politiche del sistema bancario e la scelta dei risparmiatori, che hanno scelto d'investire nel mattone


Ci sono volute due guerre mondiali perché la Germania imparasse che non era possibile dominare l’Europa con la forza militare; una volta capita la lezione, la Germania è tornata alla carica col dominio economico.
Gli accordi di Maastricht, che hanno creato l’euro, hanno infatti costituito per la Germania un tale vantaggio economico da assicurarle di fatto il dominio dell’Europa continentale. Non dovrebbe meravigliare il fatto che il Regno Unito, che da sempre ha temuto tale dominio, ne sia rimasto fuori; e lo stesso si potrebbe affermare per la Polonia.
Se ogni Paese avesse mantenuto la propria valuta, oggi il DeutscheMark varrebbe oltre 2 dollari; la Germania, in queste condizioni, avrebbe grosse difficoltà ad esportare i suoi prodotti  sui mercati internazionali. Con un euro a 1,30 -mantenuto a questo livello dalla debolezza delle valute mediterranee- la Germania non incontra alcuna difficoltà ad esportare, e ad accumulare tali riserve in valuta da potersi collocare al vertice dell’economia europea. È un caso analogo a quello della Cina, nella quale una valuta collocata ad una parità artificiosamente bassa consente forti esportazioni e importazioni minime.

Non è casuale che sia proprio la Germania ad opporsi ad ogni forma di regolamentazione europea (vedi il caso delle banche), e soprattutto di democrazia sovranazionale, che le impedirebbero di esercitare la propria leadership in modo autonomo ed incontrollato.
E l’Italia? Il nostro Paese ha tratto qualche vantaggio dalla riduzione dell’inflazione e dei tassi conseguente all’adozione dell’euro. Tuttavia questo vantaggio è stato praticamente sperperato in una corsa insensata all’acquisto di immobili, evidentemente agevolato dal basso costo dei mutui. Il fatto che in seguito alla crisi -e ad una politica fiscale fortemente penalizzante- il mercato immobiliare sia crollato non è che una conferma delle teorie di Kindleberger.

L’Italia aveva tuttavia la possibilità di sfuggire, almeno in parte, alla crisi internazionale. Non si sfugge al fatto che le principali aree di crisi occupazionale siano oggi proprio quelle dove operavano le (ormai disciolte) partecipazioni statali. Questo è il caso del polo dell’alluminio sardo (EFIM); del carbone nel Sulcis (EGAM); dell’ILVA (IRI); della Bridgestone (già Firestone Brema, INSUD); dell’Alitalia (IRI); e non sarebbe difficile continuare.

Le crisi occupazionale è aggravata dall’atteggiamento sospettoso delle banche, che non solo rifiutano di prestare denaro a chi ne ha bisogno, come la maggior parte della piccole e medie imprese italiane, ma remunerano i depositanti con tassi vergognosamente bassi; banche che, una volta passate dal settore pubblico a quello privato, hanno a cuore esclusivamente i propri bilanci e la propria solidità patrimoniale (e tale è il caso della Banca di Roma, del Credito Italiano e della Banca Commerciale, oltre che della BNL, un tempo tutte pubbliche, ed oggi privatizzate).

È facile obiettare che il sistema pubblico poteva sopravvivere soltanto con continui apporti dello Stato (i fondi di dotazione), e che quindi esisteva a spese del contribuente. Tuttavia non si limitava ad esistere, ma creava reddito e occupazione; e costava certamente meno di quanto oggi non costino CIG ordinaria e in deroga, oltre a fornire un gettito -per l'IRPEF e per l'INPS, tra gli altri- nettamente superiore a quello che costava in termini di fondi di dotazione.
Il sistema andava certamente riformato, ma distruggerlo è stato un grave errore: come la classe imprenditoriale italiana non fu in grado di gestire le grande industria negli anni ’30, così non lo è stata tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. 
È possibile tornare indietro? Probabilmente no, o almeno non nella forma che le partecipazioni statali avevano nel recente passato. Riportare in ambito pubblico tutto ciò che a suo tempo è stato privatizzato costerebbe probabilmente troppo, quanto meno per uno Stato come il nostro già pesantemente indebitato.

Si possono tuttavia immaginare soluzioni praticabili.

L’Italia dispone di riserve auree che sono  non solo tra le maggiori del mondo, ma anche nettamente sproporzionate al peso economico del Paese. Anche senza vendere una sola oncia di metallo, non sarebbe forse opportuno rivalutarle fino a -diciamo- 1.200 dollari per oncia, creando così un’enorme plusvalenza tassabile, ed un’entrata per l’Erario nettamente superiore a quanto ottenibile da ulteriori (e forse insostenibili) aggravi fiscali per il contribuente?
Questa plusvalenza potrebbe essere girata alla Cassa depositi e prestiti, che dovrebbe utilizzarla per sostenere -azionariamente e finanziariamente- le imprese italiane in crisi o a rischio di acquisizione a basso prezzo da parte di imprese non italiane.

* Duccio Valori e un ex Direttore centrale dell'IRI

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