Intervista dello storico inglese Eric Hobsbawn al settimanale l’Espresso
“È possibile il capitalismo senza le crisi?”: «No. A
partire da Marx sappiamo che il capitalismo opera attraverso crisi
appunto, e ristrutturazioni. Il problema è che non possiamo sapere
quanto sia grave quella attuale, perché ci siamo ancora in mezzo”.
Lo
storico Eric Hobsbawn ritiene che a fronte della crisi capitalista, il
“capitalismo di stato ha un grande futuro”. Lo dimostrano i Brics. “La
sinistra non ha un programma da proporre”.
La crisi in corso è differente da quelle precedenti?
«Sì. Perché è legata a uno spostamento del centro di gravità del
pianeta: dai vecchi Paesi capitalisti verso nazioni emergenti.
Dall’Atlantico verso l’Oceano Indiano e il Pacifico. Se negli anni
Trenta tutto il mondo era in crisi, ad eccezione dell’Urss, oggi la
situazione è diversa. L ‘impatto è differente in Europa rispetto ai
Paesi del Bric: Brasile, Russia, Cina, India. Altra differenza, rispetto
al passato: nonostante la gravità della crisi, l’economia mondiale
continua a crescere. Però solo nelle aree fuori dall’Occidente».
Cambieranno i rapporti di forza, anche militari e politici?
«Intanto stanno cambiando quelli economici. Le grandi
accumulazioni dei capitali da investire sono oggi quelle dello Stato e
delle imprese pubbliche in Cina. E così mentre nei Paesi del vecchio
capitalismo la sfida è mantenere gli standard del benessere esistenti
-ma io credo che queste nazioni siano in un rapido declino -per i nuovi
Paesi, quelli emergenti, il problema è come mantenere il ritmo di
crescita senza creare problemi sociali giganteschi. È chiaro, ad
esempio, che la Cina si è data a una specie di capitalismo in cui
l’insistenza di stampo occidentale sul Welfare è completamente assente:
sostituita invece dall’ingresso velocissimo di masse di contadini nel
mondo del lavoro salariato. È un fenomeno che ha avuto effetti positivi.
Rimane la questione, se questo sia un meccanismo che possa operare a
lungo».
Quello che sta dicendo porta alla questione del capitalismo
di Stato. Il capitalismo come l’abbiamo conosciuto significava scommessa
personale, creatività, individualismo, capacità di invenzione da parte
dei borghesi. Può lo Stato essere altrettanto creativo?
«L’“Economist” alcune settimane fa si è occupato del capitalismo
di Stato. La loro tesi è che potrebbe essere ottimo nella creazione
delle infrastrutture e per quanto riguarda gli investimenti massicci, ma
meno buono nella sfera della creatività. Ma c’è dell’altro: non è
scontato che il capitalismo possa funzionare senza istituzioni come il
Welfare. E il Welfare è di regola gestito dallo Stato. Penso quindi che
il capitalismo di Stato ha un grande futuro».
E l’innovazione?
«L’innovazione è orientata verso il consumatore. Ma il
capitalismo del Ventunesimo secolo non deve pensare necessariamente al
consumatore. E poi: lo Stato funziona bene quando si tratta
dell’innovazione nell’ambito militare. Infine: il capitalismo di Stato
non è legato al dovere di una crescita senza limiti, e questo è un
vantaggio. Detto questo, il capitalismo di Stato significa la fine
dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro
decenni. Ma è la conseguenza della sconfitta storica di quello che io
chiamo “la teologia del libero mercato”, la credenza, davvero religiosa,
per cui il mercato appunto si regola da sé e non ha bisogno di alcun
intervento esterno».
Per generazioni la parola capitalismo faceva rima con
libertà, democrazia, con l’idea che le persone forgiano il proprio
destino.
«Ne siamo sicuri? Secondo me non è affatto evidente associare i
valori che lei ha menzionato con determinate politiche. Il capitalismo
di mercato puro non è obbligatoriamente legato alla democrazia. Il
mercato non funziona nel modo in cui lo teorizzavano i liberisti: da
Hayek a Friedmann. Abbiamo semplificato troppo».
Cosa vuol dire?
«Ho scritto tempo fa che abbiamo vissuto con l’idea di due vie
alternative: il capitalismo di qua il socialismo di là. Ma è un’idea
stramba. Marx non l’ha mai avuta. Spiegava invece che questo sistema, il
capitalismo, un giorno sarebbe stato superato. Se guardiamo la realtà:
gli Usa, l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Giappone, possiamo
arrivare alla conclusione che non si tratta di un sistema unico e
coerente. Ci sono tante varianti del capitalismo».
Intanto la finanza prevale. C’è chi dice che il capitalismo potrebbe fare a meno della borghesia. È un’intuizione giusta?
«È emersa con forza un’élite globale composta di persone che
decidono tutto nel campo dell’economia, e che si conoscono tra di loro e
lavorano insieme. Ma la borghesia non è scomparsa: esiste in Germania,
forse in Italia, meno negli Usa e in Gran Bretagna. È cambiato invece il
modo in cui si accede a farne parte».
Vale a dire?
«L’informazione è oggi un fattore di produzione».
Non è una novità. Già i Rothschild diventarono ricchi perché
per primi seppero della sconfitta di Napoleone a Waterloo,cosa che ha
permesso loro di sbancare la Borsa…
«Intendo una cosa diversa. Oggi fai soldi perché controlli
l’informazione. E questo è un argomento forte nelle mani dei reazionari
che dicono di combattere le élites colte. Sono le persone che leggono i
libri e che hanno vari gradi di istruzone universitaria, a trovare gli
impieghi redditizi. Gli istruiti sono identificati ormai con i ricchi,
con gli sfruttatori, e questo è un problema politico vero».
Oggi si fanno soldi senza produrre beni materiali, con derivati, con speculazioni in Borsa.
«Però si continua a fare denaro anche, e soprattutto, producendo
beni materiali. È cambiato solo il modo con cui viene prodotto quello
che Marx chiamava il valore aggiunto (la parte del lavoro dell’operaio
di cui si appropria il padrone, ndr.) Oggi lo producono non più gli
operai ma i consumatori. Quando lei compra un biglietto aereo on line,
lei con il suo lavoro gratuito paga per l’automazione del servizio. È
quindi lei a creare il plusvalore che fa il profitto dei padroni. È uno
sviluppo caratteristico della società digitalizzata».
Chi è oggi il padrone? Una volta c’era la lotta di classe.
«Il vecchio proletariato ha subito un processo di outsourcing;
dagli antichi Paesi verso i nuovi. È là che dovrebbe esserci la lotta di
classe. Però i cinesi non sanno cosa sia. Seriamente: forse invece ce
l’hanno la lotta di classe, ma non la vediamo ancora. Aggiungo: la
finanza è una condizione necessaria perché il capitalismo vada avanti,
ma non è indispensabile. Non si può dire che il motore che muove la Cina
sia solo la voglia di profitto».
È una tesi sorprendente, la può spiegare?
«Il meccanismo che sta dietro all’economia cinese è il desiderio
di restaurare l’importanza di una cultura e di una civiltà. È l’opposto
di ciò che succede in Francia. Il più grande successo francese degli
ultimi decenni è stato Asterix. E non è un caso. Asterix è il ritorno al
villaggio celtico isolato che resiste all’urto del resto del mondo, un
villaggio che perde ma sopravvive. I francesi stanno perdendo, e lo
sanno».
Intanto in Occidente abbiamo i banchieri centrali che ci
dicono cosa fare. Si parla di conti, numeri, ma non dei desideri degli
umani e del loro futuro. Si può andare avanti così?
«A lungo termine, no. Ma sono convinto che il vero problema sia
un altro: l’asimmetria della globalizzazione. Certe cose sono
globalizzate, altre super-globalizzate, altre non sono state
globalizzate. E una delle cose che non lo sono state è la politica. Le
istituzioni che decidono di politica sono gli Stati territoriali. Rimane
quindi aperta la questione come trattare problemi globali, senza uno
Stato globale, senza un’unità globale. E questo riguarda non solo
l’economia, ma anche la più grande sfida dell’esistente, quella
ambientale. Uno degli aspetti della nostra vita che Marx non ha visto è
l’esaurimento delle risorse naturali. E non intendo l’oro o il petrolio.
Prendiamo l’acqua. Se i cinesi dovessero usare la metà dell’acqua pro
capite utilizzata dagli americani non ce ne sarebbe abbastanza nel
mondo. Sono sfide dove le soluzioni locali sono inutili, se non a
livello simbolico».
C’è un rimedio?
«Sì, a patto che si capisca che l’economia non è fine a se
stessa, ma riguarda gli esseri umani. Lo si vede osservando l’andamento
della crisi in atto. Secondo le antiquate credenze della sinistra la
crisi dovrebbe produrre rivoluzioni. Che non si vedono (se non qualche
protesta degli indignati). E siccome non sappiamo neanche quali sono i
problemi che stanno per sorgere, non possiamo nemmeno sapere quali
saranno le soluzioni».
Può fare qualche previsione comunque?
«È estremamente poco probabile che la Cina diventi una democrazia
parlamentare. È poco probabile che i militari perdano tutto il loro
potere nella maggior parte degli Stati islamici».
Lei ha sostenuto la necessità di arrivare a una specie di economia mista, tra pubblico e privato.
«Guardi la storia. L’Urss ha tentato di eliminare il settore
privato: ed è stata una sonora sconfitta. Dall’altro lato, il tentativo
ultraliberista è pure miseramente fallito. La questione non è quindi
come sarà il mix del pubblico con il privato, ma quale è l’oggetto di
questo mix. O meglio qual è lo scopo di tutto ciò. E lo scopo non può
essere la crescita dell’economia e basta. Non è vero che il benessere è
legato all’aumento del prodotto totale mondiale».
Lo scopo dell’economia è la felicità?
«Certo».
Intanto crescono le diseguaglianze.
«E sono destinate ad aumentare ancora: sicuramente all’interno
dei singoli Stati, probabilmente tra alcuni Paesi e altri. Noi abbiamo
un obbligo morale nel cercare di costruire una società con più
uguaglianza. Un Paese dove c’è più equità è probabilmente un Paese
migliore, ma quale sia il grado di uguaglianza che una nazione può
reggere non è affatto chiaro».
Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo…
«Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né
di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società
borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta la
comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E
poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La
principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di
classe».
In Occidente si parla sempre meno di politica e sempre più di tecnica. Perché?
«Perché la sinistra non ha più niente da dire, non ha un
programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi
della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».
L’articolo è stato pubblicato su L’Espresso (Maggio 2012)
Fonte: http://www.contropiano.org/it/cultura/item/8705-%E2%80%9Cil-capitalismo-di-stato-sostituir%C3%A0-quello-del-libero-mercato%E2%80%9D#origin:R
http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/8195-il-capitalismo-di-stato-sostituira-quello-del-libero-mercato.html
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