giovedì 31 maggio 2012
Un Paese a sua insaputa di Marco Travaglio
Perché un terremoto del quinto-sesto grado
Richter, così come un paio di giorni di
pioggia, fa strage solo in Italia (oltre, si
capisce, al resto del Terzo mondo)? La
risposta l’ha data a sua insaputa il neopresidente di
Confindustria Giorgio Squinzi, quando ha detto che
i capannoni industriali sbriciolati dalle scosse del 20
e del 29 maggio erano “costruiti a regola d’ar te”. La
questione, il vero spread che separa l’Italia dal
mondo normale, è tutto qui: nel concetto italiota di
“regola d’ar te”. La nostra regola d’arte è quella che
indusse la ThyssenKrupp a non ammodernare
l’impianto antincendio nella fabbrica di Torino
perché, di lì a un anno, l’attività sarebbe stata
trasferita a Terni. Risultato: sette operai bruciati vivi.
Mai la ThyssenKrupp si sarebbe permessa di
risparmiare sulla sicurezza nei suoi stabilimenti in
Germania, dove le tutele dei lavoratori sono
all’avanguardia nel mondo. In Italia invece si può.
Perché? Perché nessuno controlla o perché il
controllore è corrotto dai controllati. Oltre
all’avidità dei singoli, purtroppo ineliminabile dalla
natura umana, il comune denominatore di tutti gli
scandali e quasi tutte le tragedie d’Italia è questo,
tutt’altro che ineluttabile: niente controlli. Salvo
quelli della magistratura, che però arriva
necessariamente dopo: a funerali avvenuti. Dal
naufragio della Costa Concordia al crollo della casa
dello studente a L’Aquila, dalle varie Calciopoli ai
saccheggi miliardari della sanità pugliese, siciliana e
lombarda, dal crac San Raffaele ai furti con scasso
dei Lusi e dei Belsito, dalle cricche delle grandi
opere e della Protezione civile alle scalate bancarie,
dalla spoliazione di Finmeccanica alle ruberie del
caso Penati, giù giù fino alle casse svuotate di Bpm e
Mps, alle piaghe ataviche dell’evasione, degli
sprechi, delle mafie e della corruzione, quel che
emerge è un paese allergico ai controlli. Che, se ci
fossero, salverebbero tante vite e tanto denaro,
pubblico e privato. Ma la nostra regola d’arte è
quella di allargare ogni volta le braccia dinanzi alla
“tragica fatalità” o alle “mele marce”, per dare un
senso di inevitabilità a quel che evitabilissimamente
accade. Mancano i controlli a monte perché tutti si
affidano alle sentenze a valle. E poi, quando
arrivano le sentenze a valle, non valgono neppure
quelle. Formigoni, mantenuto dagli amici
faccendieri Daccò e Simone che hanno scippato 70
milioni alla fondazione Maugeri, ente privato ma
farcito di fondi pubblici dalla Regione di Formigoni,
non si dimette perché “non sono indagato”. E
perché, anche se lo fosse cambierebbe qualcosa?
Qui non tolgono il disturbo né gli indagati, né i
rinviati a giudizio, né i condannati. La giustizia
sportiva ha definitivamente condannato e radiato
Moggi dal mondo del calcio per i suoi illeciti
sportivi, revocando alla sua Juventus due scudetti
vinti con la frode, poi lo stesso Moggi è stato pure
condannato dalla giustizia penale (a Roma in
appello e a Napoli in tribunale). Eppure il
presidente Andrea Agnelli seguita a elogiarlo come
“grande manager” e rivendicare i due scudetti vinti
col trucco. E ora difende Conte, “solo indagato”.
Perché, se fosse condannato come Moggi
cambierebbe qualcosa? Battista sul Corr iere
minimizza il calcioscommesse: “Un pugno di
partite sporcate... se qualcuno imbroglia, non sono
tutti imbroglioni”, “non è vero che così fan tutti”,
ergo bisogna “essere severi con chi ha violato un
codice penale e un codice morale, ma non
dissolvere le differenze”. Bene bravo bis. Peccato
che il 7 maggio, quando la Juve ha vinto il 28°
scudetto, Battista abbia scritto che è il 30° (“t re
stelle, meritate e vinte sul campo, cucite sulla
ma glia”) e chissenefrega delle sentenze (“nessuno
ha mai pensato che una storia gloriosa fosse una
storia criminale”), frutto di “processi sommari”
perché c’entrava anche l’Inter. Dunque così fan
tutti. Ricapitolando: niente controlli prima, niente
sentenze dopo. È il Paese dell’Insaputa. Arrivederci
al prossimo funerale.
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