giovedì 14 giugno 2012

Jawohl Frau Merkel! Pronta la svendita dei beni pubblici




Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ormai ubriaco, accecato dalla disperazione, barcollante sotto la pressione delle minacce dei padroni idolatrati e ingrati, dopo aver fatto il grassatore di strada, rapinato soprattutto i poveracci, ma riluttante a scassinare i venerati sportelli bancomat, ci toglie quel poco di dignità che ci resta, quella delle bellezze e delle memorie collettive: siamo gente maleducata, le abbiamo curate poco, ci passiamo davanti senza nemmeno degnarle di uno sguardo, ma esistono per tutti perché non sono di uno. E poi approfitta da piccolo miserabile ricattatore della tremenda necessità che ha contribuito a produrre per smantellare definitivamente il già pericolante edificio di diritti e valori dei beni comuni.

Reduce dal liscia e bussa berlinese Monti si sente legittimato a compiere l’ennesimo misfatto ai danni dell’interesse generale: «Abbiamo predisposto dei veicoli, fondi immobiliari e mobiliari attraverso i quali convogliare, in vista di cessioni, attività mobiliari e immobiliari del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale». L’intento è sfrontatamente esplicito, l’espropriazione, la svendita ai privati, possibilmente esteri, di servizi pubblici locali e municipalizzate, settori e aziende “che al momento hanno sul mercato valutazioni, e opportunità di ritorno economico, molto più vantaggiose di quelle delle grandi aziende di cui lo Stato conserva un quota”.

Era una delle desiderate e auspicate ricadute dell’austerity, una delle volute perversioni indotte dall’adozione di politiche recessive, che la riduzione del debito pubblico è l’espediente aberrante per contrarre le spese, smantellando del welfare, per aumentare le tasse, soprattutto quelle che colpiscono la maggioranza degli individui, per riportare l’economia a quel livello di equilibrio per loro augurabile «naturale», condizione senza la quale non è possibile una “efficiente allocazione delle risorse” cioè un ritorno redditizio per chi ha già tutto, ma persegue avidamente un illimitato profitto. Il tutto con l’obiettivo di perseguire il percorso del loro modello di crescita, grazie all’eliminazione tutto ciò che aveva posto «lacci e lacciuoli» al libero scambio e all’egemonia del rapace ammasso di prodotti finanziari e di rendite immateriali.

Tra le caratteristiche più nauseanti e immorali dei questi improvvisati e incompetenti decisori decisi solo a ridurci in schiavitù, c’è la presunzione «metafisica» della loro Weltanschauung: la crisi si è determinata perché abbiamo vissuto al di sopra delle possibilità finora concesse oppure ci comportiamo in modo irrazionale e trasgressivo rispetto alle leggi del pensiero dominante.
Per il presidente del Cnr i terremoti sono la punizione per la nostra dissolutezza, per loro la giusta pena per chi pretende garanzie e il soddisfacimento dignitoso dei bisogni primari, è la cancellazione dei diritti, trasformati in caute elargizioni o in privilegi delle caste superiori, e la sottrazione dei beni comuni convertiti in prodotti da liquidare disinvoltamente. Non sanno fare altrimenti: è nella loro indole violenta e sopraffattrice voler trasformare tutto quanto è pubblico, comune, condiviso, in bene appropriato, privatizzato, per ragioni che sono legate ai processi di accumulazione su scala globale, ma anche al loro carattere utilitarista ed acquisitivo, in sostanza incivile. E antidemocratica. Perché a loro si addice un dispiegarsi nella società egoistico e individualistico, perché per loro l’emancipazione passa attraverso la rottura di vincoli sociali e umani che considerano arcaici, pregressi e spesso obsoleti, perché respingono con scherno e disprezzo l’idea che ci sia qualcosa che li lega al destino degli altri, così come la convinzione che debba essere tutelato un insieme di beni necessariamente condivisi che permettono lo svolgersi armonioso della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, il godimento pieno e diffuso di diritti.

Così come oggi non è possibile parlare di salario senza parlare di welfare, in un contesto in cui politiche del lavoro e politiche sociale sono imprescindibili l’una dall’altra così come non è più separabile il tempo di lavoro remunerato e il tempo di vita produttiva non remunerata, è evidente che la teologia economica sta portando non solo all’espropriazione dei beni comuni ma del “comune” , inteso come cooperazione sociale o intelligenza collettiva che sta alla base dello sviluppo delle economie della conoscenza e dell’apprendimento, dell’ambiente e delle risorse, della cultura e del territorio.

La cancellazione dell’espressione popolare sull’acqua, la vendita dei terreni agricoli demaniali che il Governo Monti ha di recente approvato nel cosiddetto “decreto liberalizzazioni”, che all’art.66 specifica e in qualche misura aggrava quanto già previsto dalla legge del 12 novembre 2011 voluta da Berlusconi, oggi le nuove liquidazioni, dimostrano che il governo vuol farci recuperare in fretta il ritardo accumulato rispetto alla Grecia. Salvo che a differenza dei greci noi non andiamo alle elezioni in attesa di svendere Capri ai Krupp, che si sa ci avevano già buttato un occhio avido. Noi finiamo per assomigliare agli inglesi che tra Seicento e Settecento, subirono la recinzione delle terre coltivabili, sottratte al godimento comune per essere “concesse” a singoli proprietari. Presto sopporteremo anche che il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, diventi l’oggetto della stessa cupidigia di allora, che lo trasformerà da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare, trasformando la conoscenza da bene comune a merce globale.

Eppure restano solo i beni comuni a parlarci dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, a stabilire un limite invalicabile, quello della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo dissipato delle risorse, ma anche quello legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dal sapere, dalla bellezza, dalla ragione.

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