Negli ultimi giorni il governatore Roberto
Formigoni si era battuto come un leone contro
le dimissioni della governatrice Renata
Polverini. Purtroppo per lui e per nostra
fortuna, gli è andata buca. Ma il suo generoso sforzo
era piuttosto comprensibile: se si dimette una
governatrice che non è indagata e non è nemmeno
accusata politicamente di avere abusato del suo
potere, cosa dovrebbe fare un governatore inquisito
(come altri 12 consiglieri regionali) per corruzione e
finanziamento illecito in una serie di vicende che
vedremo se sono reato, ma già ora configurano
spaventosi abusi di potere? Eppure la Polverini da oggi
è a casa con giunta e Consiglio, mentre Formigoni
resta a piè fermo al Pirellone con giunta e Consiglio.
Possibile? L’esito opposto degli scandali del Lazio,
infinitamente meno gravi, e di quelli della Lombardia,
infinitamente più gravi, non si spiega soltanto con le
faide interne al Pdl locale. Ma anche col diverso
impatto mediatico. Un capogruppo che, oltre alla
faccia che ha, bonifica i rimborsi pubblici sui suoi
conti personali fa molto più scandalo di un
governatore che viaggia, villeggia, pasteggia e forse
intasca a spese di un “fa c i l i t a t o re ” della sanità privata
convenzionata con la sua Regione. Eppure, se il primo
scandalo è roba da rubagalline che sottraggono risorse
ai cittadini per arricchirsi, ma non minano
l’imparzialità dell’amministrazione, il secondo è un do
ut des che inquina i meccanismi della spesa sanitaria,
prima voce di ogni bilancio regionale. È difficile infatti
sfuggire al sospetto che i fiumi di denaro pubblico
dirottati alle cliniche private come il San Raffaele e la
Maugeri fossero tutti dovuti, visto che a oliare i
rubinetti in Regione era il faccendiere Daccò, ciellino
come Formigoni e come molti dirigenti della sanità
lombarda, il quale poi intascava la percentuale (70
milioni in pochi anni solo dalla Maugeri) e ne investiva
una parte per mantenere a suon di milioni (7-8
secondo i pm) la vita da nababbo del governatore. I
particolari del perverso quadrilatero
Regione-cliniche-Daccò-Formigoni li abbiamo
raccontati nell’istant book Roberto Forchettoni, in
vendita col Fatto . Eppure il card. Bagnasco, presidente
della Cei, non ha mai tuonato contro gli “scandali
inaccetta bili” e il “malaffare anche nelle regioni” nei
mesi scorsi, via via che si scoprivano gli altarini del pio
Celeste (e nemmeno quando il card. Bertone spedì in
America mons. Viganò che stava sradicando il
malaffare in Vaticano): lo fa solo ora che si scoprono
quelli di Fiorito & C. Forse, se la Chiesa si fosse
svegliata prima, Formigoni sarebbe a casa da un pezzo.
Anche perché del caso si sarebbero magari occupati
con più attenzione i tg e i talk show televisivi: invece, a
parte Servizio Pubblico e pochi altri, il caso Lombardia
è stato sempre poco telegenico. Se chiedete in giro
cos’ha fatto Fiorito, lo sanno tutti. Cos’ha fatto
Formigoni, lo sanno in pochi. E non perché i
capodanni ai Caraibi, le cene e i jet e gli yacht a sbafo,
le ville in Sardegna a prezzi stracciati siano meno
“popolar i” delle ruberie e dei festini del Pdl alla
puttanesca. Il fatto è che il sistema Formigoni è molto
più antico, consolidato, ramificato e trasversale dei
par venu romani e dei brubru ciociari. Infatti, mentre a
Roma gli ex An sparano sugli ex forzisti e viceversa, a
Milano non muove foglia e non parla nessuno.
Nemmeno la Lega, che ha imposto le dimissioni
financo al suo fondatore, osa chiederle al Celeste.
Toccare lui significa mettere in discussione un regime
che dura da 17 anni e ha dato da mangiare un po’ a
tutti (vedi spartizione degli appalti fra coop bianche e
rosse, non solo in Lombardia). E minare il
berlusconismo nella sua ultima roccaforte, dopo i
crolli di Sicilia e Lazio. Forchettoni potrebbe dimettersi
persino per le sue giacche e le sue camicie. Non per le
indagini di corruzione. Fra l’altro, creerebbe un
pericoloso precedente.
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