mercoledì 20 marzo 2013

TEMPESTA PERFETTA: MENTRE L’EUROZONA E’ NEL CAOS L’IRLANDA SI RIPRENDE PARTE DELLA SUA SOVRANITA’




















Che l’eurozona sia nel caos ormai è un dato di fatto. La mancanza di un governo 
centrale capace di prendere decisioni univoche e chiare (e magari anche razionali 
comprensibili, che non guasta) si sta facendo sentire proprio adesso che bisogna 
fare delle scelte e nessuno sa bene chi sia autorizzato a farle. In mezzo a questo 
istituzionale l’Irlanda nel silenzio più assoluto dei media (perché parlare di cose
 importanti, ci sono tante belle scemenze di cui parlare? Gli occhi di Berlusconi, le
 lacrime di Bersani, le bacchettate di Grillo, l’elezione del papa, insomma per i 
cialtroni dell’informazione c’è solo l’imbarazzo della scelta), la piccola Irlanda ha 
fatto una mossa che potrebbe mettere presto in crisi il colosso d’argilla europeo 
e nessuno sembra avere la capacità di cambiare gli eventi. La Commissione Europea
 scarica il compito alla BCE e la BCE, a sua volta, per bocca del suo governatore 
Mario Draghi, passa la patata bollente al Consiglio Direttivo, che a quanto pare sul
 caso specifico dell’Irlanda dovrà pronunciarsi entro la fine dell’anno. In questo 
contesto di confusione assoluta, il governo irlandese guidato dal primo ministro 
Enda Kenny (foto a sinistra) pare sia l’unica istituzione ad avere le idee chiare e 
abbia deciso di continuare ad andare avanti per la sua strada, in attesa che qualcuno
 si decida a pronunciarsi chiaramente sul da farsi. "Il risultato odierno è un passo 
storico sulla strada per la ripresa economica" ha detto trionfante al Parlamento di 
Dublino Kenny qualche giorno fa "Questa manovra assicura la futura sostenibilità
 finanziaria dello stato".


Ma cosa ha fatto di così rivoluzionario ed epocale Kenny? Si tratta di un’ennesima
 bufala o fregatura per i cittadini, oppure questa decisione aiuterà concretamente la 
ripresa di uno stato a pezzi? Andiamo con ordine perché la posizione attuale dell’Irlanda
 è molto delicata. Malgrado tutti i plausi pervenuti da ogni parte, da Bruxelles e Berlino
 in particolare, per il rigore teutonico con cui l’Irlanda ha seguito il suo programma
 di austerità, fatto principalmente di licenziamenti nel settore pubblico e tasse, la 
situazione del paese è ancora drammatica, con l’economia che ristagna e la 
disoccupazione che si attesta intorno al 14%. Senza considerare tutti i massicci 
movimenti migratori dei giovani ragazzi irlandesi verso l’Australia, soprattutto. Una 
catastrofe sociale che come i meglio informati sanno non è dovuta affatto all’eccesso
 di debito pubblico, agli sprechi o alla corruzione della classe politica, ma alle sciagurate
 gestioni fallimentari di un ristretto manipolo di banchieri privati, appoggiati e 
spalleggiati ovviamente dai politici locali, che nel giro di pochi anni sono riusciti a 
sommergere di debiti l’intero paese. Chi ancora ha dei dubbi su come si sia sviluppata 
e quale sia la vera origine della crisi finanziaria che attanaglia oggi l’eurozona, dovrebbe
 studiare meglio il caso dell’Irlanda che è sicuramente il più emblematico di tutti. E 
con qualche piccola variante, dovuta alla minore o maggiore compartecipazione del
 settore pubblico, applicarlo poi agli altri paesi PIIGS. Italia compresa. 



Ma vediamo innanzitutto a grandi linee quali sono gli elementi e gli eventi principali 
che caratterizzano il caso irlandese. Prima dello scoppio della bolla speculativa dei 
titoli subprime americani del 2008, l’Irlanda era a detta di tutti il paese più “virtuoso” 
d’Europa per quanto riguarda i conti pubblici: aveva raggiunto il pareggio di bilancio
fra entrate e uscite e il suo debito pubblico era sceso addirittura sotto il 40% del PIL.
 Il regime di defiscalizzazione degli investimenti, con una tassazione media 
del 12% fra le più basse del mondo, aveva convinto molte multinazionali (Google è 
soltanto la più famosa, ma ci sono anche IBM, Apple, Xerox, Intel) a prendere sede
 in Irlanda, per godere dei vantaggi di arbitraggio concessi dalla globalizzazione. I 
nuovi capitali che arrivavano a fiumi in Irlanda, oltre a dare la parvenza di un paese
 sviluppato con bassa disoccupazione, avevano ingrossato anche i depositi presso le
 banche locali che prese dall’euforia si erano lanciate con entusiasmo nel campo degli 
investimenti speculativi in titoli derivati, soprattutto americani, e nell’attività 
creditizia interna nel settore immobiliare. Insomma fra l’acclamazione generale 
si stavano creando le premesse per la nascita di una piccola bolla bancaria all’interno
 della più grande bolla finanziaria che intanto si stava minacciosamente gonfiando a
 livello internazionale.


Attirate dagli alti rendimenti, le banche tedesche e francesi non avevano lesinato a 
sua volta ad investire in titoli delle banche irlandesi, mantenendo in piedi uno schema
 finanziario molto fragile, perché sostenuto appunto daicapitali e dagli investimenti
 esteri e non dai risparmi interni. E così mentre il debito pubblico scendeva
 rapidamente, il debito estero, contratto soprattutto dal settore bancario privato, 
continuava ad ingigantirsi senza che nessuno suonasse mai il campanello di allarme. 
Anzi, gli analisti finanziari più esperti si sperticavano in una serie interminabile di elogi 
per il modello di sviluppo applicato in Irlanda, presentandolo al mondo come un 
esempio da seguire per molte altre nazioni che stentavano a far ripartire l’economia. 
L’Irlanda era chiamata la “Tigre Celtica”, proprio per la sua intraprendenza nel campo
 finanziario, cosa che in effetti avrebbe dovuto preoccupare e insospettire qualcuno 
dei residenti visto la fine che avevano fatto le “Tigri Asiatiche” dopo lo scoppio della 
bolla speculativa del 1997. Ma gli analisti finanziari come si sa hanno la memoria corta,
 soprattutto quelli che lavorano all’interno di grandi gruppi bancari e finanziari e devono
 tenere alto il valore degli investimenti fatti dalle rispettive società di appartenenza. 
Importante in questi casi è non rimanere mai l’ultimo con il cerino in mano quando
 scoppia la bolla, ma fino a quando gli affari si gonfiano bisogna soffiare aria fritta e
 parole a vanvera con tutta l’energia e la credibilità possibile.



Il momento di smobilitare gli investimenti fatti in Irlanda arrivò appunto nel settembre
 2008, quando a causa della crisi dei titolisubprime americani, le sei maggiori banche 
del paese, fra cui laAnglo Irish Bank e la INBS (Irish Nationwide Building Society),
 si trovarono strette in una doppia morsa di crisi di solvibilità e liquidità, dato che 
gran parte delle attività finanziarie e immobiliari si erano deprezzate drasticamente e
 chi era ancora in tempo aveva provveduto a prelevare i suoi depositi per riportarli 
all’estero. Per impedire che iniziasse una furibonda corsa agli sportelli, il governo
 irlandese si vide costretto ad apporre la garanzia statale sui depositi delle banche 
intervenendo pesantemente per evitare il collasso e fornire il salvataggio pubblico 
necessario. E qui finisce la storia della virtù pubblica dell’Irlanda, che da stato “virtuoso
 cominciò ad essere additato dai soliti analisti come uno stato spendaccione, un 
maiale, alla stregua degli altri PIIGS dell’eurozona (pochi ebbero la decenza e il 
pudore di spiegare che il governo irlandese era intervenuto soprattutto per salvare gli
 investimenti delle banche tedesche e francesi, che in caso contrario avrebbero subito
 ingenti perdite). Ma per capire meglio le dimensioni del debito estero accumulato
 dall’Irlanda, guardiamo il grafico sotto diviso per categorie (investimenti diretti,
 investimenti di portafoglio, debiti bancari e finanziari, banca centrale): già nel 2010,
 il debito estero complessivo ammontava a €1,73 trilioni circa, ovvero 10 volte 
maggiore del PIL del paese di €173 miliardi. Una situazione molto preoccupante, 
che non si discostava affatto da ciò che stava accadendo intanto in Spagna, 
Portogallo e Grecia.





Ovviamente, e per fortuna, l’Irlanda ha anche un credito estero, dal cui saldo derivava
 una posizione netta sull’estero passiva superiore al 90% del PIL (quindi ben oltre 
il livello di guardia fissato dai più autorevoli economisti intorno al 50% del PIL). Nel 
2010, il governo irlandese ormai alle corde, impossibilitato a finanziarsi sui "mercati" a
 rendimenti accettabili, si vide costretto a chiedere un piano di salvataggio 
internazionale da €67,5 miliardi all’Unione Europea, alla BCE e al FMI. In particolare
 i €30,6 miliardi concessi dalla BCE dovevano servire per il salvataggio diretto delle
 due banche più in crisi, la AIB e la INSB, che furono fuse in un’unica banca chiamata
 IBRC (Irish Bank Resolution Corporation). Gli investitori stranieri furono così tutelati
 senza alcuna perdita e ricevettero la garanzia del ritorno del 100% del loro
 investimento iniziale, mentre tutto il peso della cattiva gestione delle banche irlandesi
ricadde sul governo e indirettamente sui cittadini, che furono penalizzati con un
 notevole aumento della pressione fiscale e un taglio netto della spessa pubblica, che
 comportò migliaia di licenziamenti nel settore statale. In finanza accade sempre questo
 strano fenomeno: chi investe grosse somme non perde mai, mentre chi scommette
 poco o non ha mai messo piede in una banca e non sa nemmeno cosa sia la borsa 
deve pagare per i primi. E così, gravati da questa pesante passività, i conti pubblici 
andarono in rovina, il surplus faticosamente raggiunto prima del 2008 passò a 
diventare un deficit pubblico, che dal disastroso -30,9% del 2011 è passato al
 -8,2% attuale (grafico sotto). Anche perché come capita spesso in questi casi oltre
 alle maggiori uscite per il salvataggio pubblico delle banche il governo dovette 
assistere ad un calo delle entrate tributarie dovuto al crollo del reddito nazionale.





Il programma di assistenza, Emergency Lending Assistance (ELA), negoziato
 dal governo con la Banca Centrale d’Irlanda, prevedeva in cambio della liquidità 
necessaria per far funzionare la nuova banca IBRC la firma e la consegna di vere e
 proprie cambiali (Promissory Note) pagabili dal governo in 20 anni. Il piano di 
rientro era così composto: €3,1 miliardi ogni anno per 12 anni (il 2% del PIL
 nazionale), €2,1 miliardi nel 2024, quindi €0,9 miliardi per 5 anni e infine €0,1 miliardi 
a saldo nel 2031, con un interesse complessivo associato all’operazione di €17 
miliardi che il governo avrebbe dovuto corrispondere durante tutto il corso dei venti 
anni. Con le solite tasse e i tagli alla spesa pubblica. Di conseguenza il debito
 pubblico, sotto il peso di questo macigno, è sprofondato dalla sua iniziale quota 
virtuosa” inferiore al 30% agli oltre 100% del PIL attuali (grafico sotto), facendo
 allarmare sia i politici che i cittadini sulla reale sostenibilità dell’intera manovra di
 salvataggio bancario. Anche perché a più riprese, la protesta dei cittadini si è
 fatta sentire rumorosamente, sia conmanifestazioni contro le crescenti tasse 
che con proteste di piazza contro i banchieri truffatori e i governanti compiacenti.




Ma a questo punto comincia la parte più interessante del racconto. Già ad inizio 
gennaio del 2013, il premier Kenny intraprende i suoi primi viaggi della speranza
 verso Bruxelles e Francoforte per trovare nella Commissione Europea o nella BCE 
degli interlocutori validi per ritrattare l’intero programma di rientro. La situazione
 già precaria dell’economia irlandese che mostrava qualche timido cenno di ripresa 
non poteva essere appesantita con i previsti prelievi annuali e secondo Kenny era 
più che mai necessaria una ristrutturazione del debito per consentire un atterraggio
 più morbido e allungare il piano generale di rimborso. Tuttavia il classico balletto 
dello scaricabarile inscenato dagli inconcludenti tecnocrati europei unito all’avvicinarsi 
della data del 31 marzo in cui l’Irlanda avrebbe dovuto rimborsare la sua quota annuale
, hanno convinto Kenny a prendere una decisione perentoria


Il governo irlandese scambierà le cambiali in scadenza possedute dalla Banca Centrale
 d’Irlanda con titoli del debito pubblico con tempi di maturazione media superiori a
 34 anni, in cui le maggiori quote di rimborso sono previste per il 2038 e il 2053. Per
 la prima volta, uno stato non più sovrano dell’eurozona se ne è infischiato di attendere
 le decisioni degli sfaccendati e stralunati tecnocrati di Bruxelles e ha fatto una scelta 
a tutti gli effetti “sovrana”, che contrasta vistosamente con i trattati europei e in 
particolare con il famigerato articolo 123 che impedisce alle banche centrali 
dell’eurozona di finanziare direttamente i rispettivi governi. Il precedente prestito
 si è trasformato insomma in una forma più o meno camuffata di monetizzazione 
del deficit pubblico: soldi freschi della banca centrale in cambio di titoli di stato, anche
 se poi questi soldi non servono per alimentare la spesa del governo ma sono stati 
già convogliati nelle casse delle banche fallite. In ogni caso, questo legame diretto 
fra governo e banca centrale rappresenta un vero abominio e un affronto per la
 tecnocrazia europea, che proprio su questa inconsueta e ancora incomprensibile 
cesura aveva fondato le basi del suo primato oligarchico e antidemocratico

      
Interrogato sullo smacco irlandese dai giornalisti nell’ultima conferenza stampa di
 inizio marzo, il governatore della BCE Mario Draghi non senza qualche imbarazzo 
ha riferito di avere preso nota di ciò che sta accadendo in Irlanda, riservandosi di
 rivedere con calma l’intera faccenda insieme agli altri membri del Consiglio Direttivo 
della banca centrale di Francoforte. Ad ogni modo, Draghi ha fatto capire che la 
questione riguarda ormai i rapporti interni fra il governo irlandese e la Banca 
Centrale d’Irlanda, mentre le presunte irregolarità inerenti il rispetto dell’articolo 123
 verranno analizzate con la dovuta scrupolosità entro la fine dell’anno. Nulla però Draghi
 ha detto riguardo la questione di fondo che soggiace all’intera vicenda e lo stesso 
Kenny ha spesso accennato in modo velato, con tutte le cautele del caso (non sia mai 
svegliare i cittadini e spiegargli apertamente quale sia il vero significato dei soldi oggi:
 i politici sono pur sempre i camerieri dei banchieri, o no?), in pubblico: ma se i soldi
prestati dalla BCE al governo irlandese vengono creati dal nulla, perché i cittadini
 dovrebbero svenarsi e privarsi dei loro risparmi per rimborsare del denaro che una
 volta rientrato alla base verrebbe distrutto o bruciato? Che senso ha mettere in 
ginocchio un’intera nazione per dei semplici bit elettronici o delle voci contabili
 all’interno del bilancio di una banca centrale? Non sarebbe più giusto che la parte di 
debito dovuto alla BCE venisse in qualche abbonata o decurtata, lasciando intatta 
solo la quota prestata dal FMI?


Ovviamente di fronte a questi scottanti interrogativi i funzionari della banca centrale 
tedesca Bundesbank sono sobbalzati all'unisono e hanno fatto una corale levata 
di scudi, ricordando che il compito principale della banca centrale deve essere il 
controllo dell’inflazione e pur di mantenere bassa l’inflazione, la gente può essere
 tranquillamente dissanguata e lasciata morire. Ricordiamo che i tedeschi sono ormai 
gli unici al mondo, insieme ai loro servili lacchè europeisti disseminati in tutto il 
 inflazione e soprattutto che una banca centrale possa davvero influenzare e 
modificare il livello della massa monetaria circolante. Due scemenze belle e
 buone che servono per coprire la verità profonda dell'intransigenza teutonica in tema 
di politica monetaria: per chi ancora non lo avesse capito,l’euro non è una moneta 
comune ma una veste un po’ più sofisticata del marco tedesco e i marchi, da che 
mondo è mondo, non si regalano a nessuno, ma bisogna guadagnarseli con il sangue. 
Fine della storia. O almeno così sembra, dato che nel caos attuale imperante
 nell’eurozona la decisione “sovrana dell’Irlanda potrebbe creare un precedente 
politico a cui potranno in futuro appellarsi gli altri governi degli stati più in difficoltà. 
In particolare pensiamo a Grecia e Portogallo, i cui governi invece stanno continuando
 a pagare a caro prezzo i loro durissimi piani di rientro con rivolte popolari, sofferenze 
e vessazioni non più tollerabili della cittadinanza. Ma anche l’Italia potrebbe essere
presto coinvolta in questa faccenda e non a caso qualche tempo fa il direttore del 
collocamento dei titoli pubblici del MEF Maria Cannata aveva timidamente accennato
 alla possibilità di rifinanziare l’enorme debito pubblico italiano con titoli a più lunga
 scadenza, dai 30 fino ai 50 anni. Non è sicuramente una soluzione definitiva al 
problema del debito pubblico e della perdita della sovranità monetaria, ma 
indubbiamente un’operazione del genere potrebbe alleviare non poco la pesantezza
 degli impegni immediati di consolidamento del debito e partecipazione ai fondi di 
salvataggio presi in sede europea dall’Italia (vedi Fiscal Compact Mes).



Se i tecnocrati europei sono degli inetti, perché i politici e i funzionari nazionali non 
dovrebbero adoperarsi da soli, in piena autonomia, per modificare le norme più 
criminali e controverse dei trattati europei? In questo ingarbugliato castello di 
carte e burocrazia costruito dal comitato d’affari di Bruxelles, esiste ancora per un 
governo democratico nazionale lo spazio di manovra necessario per prendere 
decisioni “sovrane”? La strategia del silenzio assenso potrebbe essere il metodo
 migliore per riformare rapidamente in senso democraticol’impostazione monolitica 
e totalitaria dell’eurozona? L'anarchia istituzionale, in cui ognuno decide per sé e 
cerca di salvare il salvabile, sarà la prossima evoluzione del mostro giuridico europeo?
 Invece di stare appresso alle lusinghe del fallito Bersani e alle congiuntiviti di 
Berlusconi, i neo-deputati del Movimento 5 Stelle dovrebbero pronunciarsi e seguire
 attentamente ciò che sta accadendo oggi in Europa se vogliono stare al passo con
 i tempi e risultare davvero decisivi per il nostro paese e per il futuro di tutti noi.
 Perché ormai le decisioni che contano veramente per i cittadini si prendono o non 
si prendono a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino. Mentre a Romaal massimo si 
elegge un papa e poco altro. E anche qui il baricentro pare essersi spostato verso 
Buenos Aires. E poco importa se il nuovo papa argentino sia ostile al governo
 progressista sudamericano e un convinto conservatore, perchè adesso i media
 italiani saranno costretti loro malgrado a parlare di Argentina. E chissà se un giorno
 la presidentessa Kirchner verrà in visita in Italia a dare lezioni di democrazia a 
noi inconsapevolivittime di una dittatura.        

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