martedì 26 marzo 2013

Vicolo largo di Marco Travaglio


In questo primo mese post-elezioni la politica
italiana è cambiata più che negli ultimi
vent’anni. Un Parlamento più giovane, più
femminile e un po’ meno sporco di prima. I
presidenti di Camera e Senato (dimentichiamoci
per un attimo i loro nomi, almeno del
secondo) scelti fuori dalle nomenklature partitiche.
Il loro impegno a tagliarsi lo stipendio,
sia pur di poco, innescando un effetto domino.
La Sicilia che abolisce le province. Il Pd che
parla di conflitto d’interessi, di ineleggibilità di
B., addirittura di un sì a richieste d’arresto, tutti
temi che fino all’altroieri erano tabù. E osa financo
mettere in discussione il dogma del Tav
Torino-Lione, grazie a Puppato, Emiliano e Civati,
tre rari esseri viventi in un Politburo di
mummie. Il merito principale è del Movimento
5Stelle che pungola e spaventa i partiti, dando
coraggio e visibilità a dirigenti rimasti troppo
tempo nell’ombra e ribaltando l’Agenda Unica
che dominava fino a ieri la morta gora con la
scusa dei mercati, dell’Europa e del ricatto
“Monti, solo Monti, sempre Monti”: spread,
austerità, tagli, tasse. Però il miglior Parlamento
degli ultimi decenni rischia di sciogliersi alla
velocità della luce per mancanza di maggioranza,
paralizzato da tre minoranze vicine al
30% (Sinistra, M5S e Destra) più quel che resta
del Centro. Siccome, checché se ne dica, il Pd è
il partito più votato, sia pur di un soffio, è giusto
che l’incarico di tentare un governo sia andato
a Bersani. Il quale però non ha la più pallida
idea (o, se ce l’ha, non la dice) di come racimolare
una maggioranza che gli voti la fiducia
al Senato (alla Camera ce l’ha solo grazie
al mostro del Porcellum). L’unica sua chance è
al blocco Sinistra-Centro (sempreché Monti e
Casini ci stiano) si uniscano almeno 17 dissidenti
M5S, o la Lega, o il Pdl (votando la
fiducia o uscendo dall’aula per abbassare il
quorum). Sappiamo che Bersani non vuole i
voti del Pdl, ma non può impedire che gli arrivino
a sua insaputa per tenerlo in pugno.
Sappiamo che il soccorso leghista non gli dispiace,
e vien da domandarsi se sia impazzito,
visti i piani secessionisti di Maroni. Sappiamo
che la sua prima opzione è spaccare i 5 Stelle col
“metodo Grasso” o il “modello Sicilia”, che
c’entrano come i cavoli a merenda (le presidenze
delle Camere sono cariche istituzionali,
il governo è un fatto politico; e nelle regioni la
fiducia non esiste). Nei primi due casi Bersani
si consegnerebbe nelle mani della Destra: un
suicidio. Nel terzo scatenerebbe le proteste grillesche
contro un mercato delle vacche che non
basta chiamare “scouting” per cancellarne la
puzza: un suicidio al cubo. Che fare per non
ricascare nel solito inciucio? Ripartire dalle
aspettative degli elettori. Ai quali Bersani promise
di governare col Centro contro i “populisti”
Grillo e B.; Grillo di combattere “Pdl,
Pdmenoelle e Rigor Montis”; B. di sbaragliare i
“comunisti” Pd-Sel, i “black bloc” a 5 Stelle e il
“Trio Sciagura” Monti-Casini-Fini. Nessuno
dei tre – né Bersani, né Grillo, né B. – è stato
votato per governare con uno degli altri due.
Dunque si rispetti, una volta tanto, la parola
data e il responso delle urne. Bersani rimetta il
mandato prima di sfracellarsi al Senato, cestini
i suoi otto punti (di sutura) e dica a Napolitano:
“Nomini lei un premier fuori dai partiti, che
per pochi mesi faccia poche cose fra quelle che
piacciono agli elettori di Sinistra ed M5S, realizzabili
in breve tempo: via i fondi pubblici ai
partiti, il Tav, il Porcellum, le province; e leggi
‘Robin Hood’ per togliere ai ricchi e dare a chi
ha bisogno. Poi, se il governo regge, va avanti;
se no si vota”. Qualcuno dirà: 5 Stelle dirà no
comunque. E chi può dirlo? Grillo al Colle non
ha fatto nomi: ha chiesto un governo “a 5 Stelle”,
non “di 5 Stelle”. Se ora alcuni dei suoi sono
tentati di dialogare financo col Pd, è possibile
che la gran parte dica sì a una proposta che non
può rifiutare. Finora non s’è vista: che aspettano
lorsignori a farne una?

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