La verità è testarda. Magari fatica ad affermarsi,
specie quando l’informazione è fatta
apposta per depistarla. Ma alla fine prorompe
fuori. Da quando è nato il governo-inciucio
Pdl-Pd, i trombettieri del centrodestra passano
il tempo a sottolineare che ha vinto B., il che
incredibilmente è vero; e quelli del centrosinistra,
nel tentativo di placare la rabbia di molti
elettori, vivono con le braccia allargate e raccontano
che è tutta colpa di Grillo. Bastava un
suo cenno, e sarebbe nato il “governo del cambiamento”
Pd-M5S che avrebbe liberato l’Italia
da B. trasformandola nel Regno di Saturno. Ma
purtroppo Grillo disse no, perché – come scrisse
l’Unità in uno dei suoi titoli più dadaisti – ha
stretto “un patto con Berlusconi”, essendo notoriamente
“di destra” nonché molto avido di
denaro (va addirittura in ferie in Costa Smeralda
e fa pubblicità sul blog, non so se mi spiego).
Bastava rivedersi la diretta streaming dell’incontro
Bersani-Letta-Crimi-Lombardi per
rammentare che quella ricostruzione, ormai assurta
a dogma di fede, è una panzana. Bersani
non propose affatto ai 5Stelle di entrare in un
governo di cambiamento: altrimenti non si sarebbe
proposto come premier dopo aver perso le
elezioni, con la lista dei ministri Pd-Sel già pronta,
e col programma già scritto (i famosi 8 punti
di sutura). All’indomani del voto, il Pd tentò
subito di comprarsi una ventina di senatori grillini,
con lo “scouting” (neologismo coniato per
nobilitare lo scilipotismo “de sinistra”), in nome
di un “modello Sicilia” non esportabile a Roma
(nelle regioni non c’è voto di fiducia, in Parlamento
sì). Ma gli andò buca. Allora Bersani
chiese ai 5Stelle, o ad alcuni di essi, di dare la
fiducia o la non sfiducia (astensione o uscita dall’aula),
al suo governo di minoranza. La classica
proposta che si deve rifiutare: i 5Stelle avevano
promesso agli elettori di spazzare via “Pdl e
Pdmenoelle” e non potevano sposare a scatola
chiusa un monocolore Pd+Sel. Tantopiù senz’avere
voce in capitolo nella scelta del premier e
dei ministri, né tantomeno nel programma.
Che, a parte qualche accenno al “web” e al
“wi-fi” (le classiche perline colorate dei colonialisti
per abbindolare i pigmei), non conteneva
alcun punto qualificante del programma 5Stelle
(No-Tav, via i fondi pubblici ai partiti ecc.).
Solo un governo presieduto da un indipendente
col programma aperto ad alcuni cavalli di battaglia
del M5S avrebbe giustificato un suo appoggio.
Ma quella proposta che non si poteva
rifiutare non venne mai. Anzi, quando i 5Stelle
provarono a proporre un governo Settis, o Rodotà,
o Zagrebelsky, Napolitano li stoppò. E
quando candidarono Rodotà al Colle, il Pd fu
ben lieto di impallinare Prodi e accordarsi col
Pdl su Napolitano. Che aveva già pronto l’agognato
inciucio, peraltro già esistente nei fatti
dalla Bicamerale in poi. Marina Sereni confessò
poi a Porta a Porta: “Non c’è mai stata di fare un
governo con i 5 Stelle”. Ma non c’è peggior sordo
di chi non vuol sentire. Ora per fortuna confessa
pure Bersani: “Mica io volevo fare l’alleanza con
Grillo! Son mica matto! Proponevo: su 8 punti di
cambiamento avviamo la legislatura, consentite
come ritenete – mica mi rivolgevo solo a loro, a
tutti quanti – al Senato fate partire... un gesto
tecnico, poi provvedimento per provvedimento
ci misuriamo in Parlamento”. Cioè un governo
di minoranza (peraltro escluso fin da subito da
Napolitano) che prendesse la fiducia dai 5Stelle
e poi aprisse il mercato delle vacche acquistando
voti ora da M5S, ora dal Pdl. Un super-inciucio
coperto dalla foglia di fico a 5 Stelle. Ma la parola
inciucio non basta più: l’inciucio si fa tra diversi,
e questi ormai sono uguali. Un partito unico.
Basta leggere la delirante intervista al Foglio del
capogruppo bersaniano Speranza sulla (anzi
contro la) giustizia. Al suo confronto, Ferrara,
Ghedini, Santanchè, Brunetta e Nitto Palma sono
dei pericolosi moderati. Però, se si dà una
calmata, magari un posto nel Pdpiùellemenoelle
glielo trovano.
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