di Valerio Valentini
Abbiamo rischiato l’embargo. O qualcosa di molto simile. E siccome, nella concitazione di questi giorni che vedono i vani sforzi per formare un governo, la notizia è passata in secondo piano, è bene sottolinearne la gravità. A dare quest’annuncio è stato lo stesso Mario Monti, riferendo al Senato sulla vicenda dei due marò: "Abbiamo avuto notizia dal sottosegretario agli Esteri, ora vice ministro, Staffan De Mistura che in sede di vertice di Brics cominciava ad essere presa in considerazione, su richiesta indiana, l'ipotesi di misure congiunte nei confronti dell'Italia". In pochi hanno riflettuto sull’importanza di una tale affermazione: importanza dal valore storico ben più vasto rispetto alla contingenza attuale. Eppure è doveroso farlo, proprio per cercare di capire quali sono gli equilibri geo-politici ed economici che si vanno stabilendo in questi anni e che condizioneranno la nostra vita nei prossimi decenni.
Innanzitutto, va detto che probabilmente Monti, costretto dall’imbarazzante situazione in cui si era cacciato il suo governo di tecnici non sempre competenti, ha fatto un gesto quasi impensabile per un primo ministro che cerca di far chiarezza su un delicato affaire internazionale: ha detto la verità. Ce lo suggerisce una coincidenza sicuramente non casuale: la decisione di rispedire Girone e Latorre in India, infatti, è stata presa in fretta e furia tra il 19 e il 20 di marzo, appena in tempo per far sì che non scadesse la licenza dei due fucilieri, cosa che sarebbe avvenuta il giorno 22 successivo. E proprio quattro giorni dopo questa scadenza, tra il 26 e il 27, era in programma la quinta conferenza generale dei BRICS, che si è svolta a Durban, in Sud Africa: l’occasione ideale per l’India, che tra l’altro presiedeva il congresso, per sollecitare misure economiche contro l’Italia. Una vera ritorsione insomma, dalle conseguenze imprevedibili, ma sicuramente disastrose per la nostra economia.
Chi sono, i BRICS? Si tratta di un’organizzazione, creata ufficialmente nel 2009, alla quale aderiscono Brasile, Russia, India, Cina e, a partire dal 2011, anche il Sud Africa. È l’equivalente del G8, per intenderci; e ne è anche il competitore, almeno nelle intenzioni dei Paesi che ne fanno parte. Cioè quei Paesi che negli ultimi anni stanno conoscendo uno sviluppo economico straordinario e che mal sopportano le pretese imperialiste dell’Occidente megalomane, che non accetta di relazionarsi con queste nuove potenze da pari a pari. La locomotiva dei BRICS è ovviamente la Cina, che sempre più si sta costituendo come il rivale mondiale degli Stati Uniti, o quantomeno come un baricentro alternativo per l’economia e la politica mondiale, riproponendo scenari da guerra fredda davvero poco incoraggianti.
Se si analizzano i rapporti di forza internazionali, il peso dei BRICS è più che mai consistente: occupano il 26% della superficie terrestre, costituiscono il 42% della popolazione totale e controllano il 21% del PIL mondiale. In quanto allo stato del welfare e al PIL pro capite, i BRICS sono ancora molto indietro rispetto agli standard occidentali, ma le prospettive future sembrano pronosticare un possibile assottigliamento di queste distanze. Il PIL procapite del G7, infatti, dal 2000 ad oggi, è cresciuto del 35%; quello dei BRICS del 99%. Senza contare che la crisi economica chi si è innescata nel 2008 ha sicuramente devastato molto più consistentemente le economie occidentali rispetto a quelle dei Paesi cosiddetti emergenti. I quali, tra l’altro sembrano non soffrire di un altro spinoso problema che affligge i grandi paesi industrializzati: il debito pubblico. Se il rapporto debito/PIL è arrivato ormai al 200% in Giappone, al 120% (e più) in Italia, al 100% negli USA, fa impressione notare che, tra i BRICS, il Paese più indebitato è l’India col 58%, mentre l’indebitamento di Russia e Cina si attesta tra il 6% e il 18%. E spesso sono proprio i Paesi come la Cina (e in misura minore l’India) a detenere il debito pubblico dei Paesi occidentali: se lo sono comprato pezzo e pezzo.
Ovviamente le differenze tra G7 e BRICS permangono, soprattutto in fatto di coordinazione politica: molto spesso India, Cina, Russia, Sud Africa e Brasile seguono strategie diverse, spesso inconciliabili e in conflitto tra loro. Lo dimostra il fatto che non sono stati in grado di proporre un candidato unico alla presidenza del FMI, nel corso delle ultime elezioni, e che spesso votano in maniera opposta nei vertici dell’ONU o del WTO. Ciononostante, i BRICS aspirano con sempre maggior convinzione a costituire un polo opposto a quello americanocentrico: non a caso, proprio nell’ultimo vertice a Durban, è stata rilanciata la proposta di creare, a breve,un'alternativa alla Banca Mondiale e al FMI.
Ma torniamo da dove eravamo partiti, dall’Italia. Cosa ci dicono le parole di Monti? Ci dicono che l’Italia non è più, e non lo è più da parecchio tempo, un Paese centrale negli equilibri politici ed economici su scala planetaria. Siamo un Paese periferico, ed è ora che ne prendiamo atto. La vicenda dei due marò è l’emblema di questa nuova situazione: abbiamo pensato di poter affrontare la diplomazia indiana con una spocchiosa prepotenza, derivata dalla nostra supposta autorevolezza internazionale. E invece ci siamo ritrovati ad accettare, in una resa senza condizioni, le imposizioni di Nuova Delhi, dopo qualche fallimentare tentativo di negoziazione. Sarebbe auspicabile che questa figuraccia ci desti dal nostro torpore, dal nostro delirio di superiorità e ci riporti coi piedi per terra: siamo la periferia del mondo, un Paese marginalissimo. Il che non necessariamente – come sostengono i tanti Statisti affannati in queste ore a riabilitare il prestigio mondiale dell’Italia – è una catastrofe.
Anzi, prendere coscienza di questa nostra marginalità sarebbe un’occasione importantissima per liberarci dell’ossessione della crescita, della competitività, dello sviluppo, dei consumi e cominciare a ragionare in termini nuovi e con nuove prospettive. Magari potremmo accorgerci che, ripartendo da quello che realmente siamo, cioè uno dei Paesi più belli in assoluto, con un patrimonio artistico e paesaggistico inarrivabile, custode della millenaria cultura mediterranea, potremmo ritrovare la nostra dimensione nel mondo. Per troppo tempo abbiamo violentato la nostra storia e le nostre tradizioni per sederci ai tavoli internazionali nei quali si pianificava la nostra decadenza; ora sarebbe il caso di non lasciarci sfuggire l’occasione per riscoprire le nostre vocazioni e la nostra (provinciale, e allora?) bellezza. Non dimenticandoci, tra l’altro, che tutte le volte che l’Italia ha affermato il proprio prestigio, sia culturale sia commerciale, è stato quando ha saputo esprimere la propria identità.
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