Un viaggio nella «zona proibita». Il governo invita la popolazione a rientrare, sostiene che la situazione sia sotto controllo, ma è una menzogna. Mentre il «villaggio nucleare» scalda i reattori, prosegue il dramma degli evacuati: sono privi di casa, lavoro e non hanno indennizzi
di Pio D’Emilia*
Fukushima. «Scusate, qui non si può riprendere. Questione di sicurezza». Per favore, camminate in fretta, qui è vietato fermarsi, è pericoloso, questione di sicurezza». Sicurezza in giapponese si dice anzen e i funzionari della Tepco che ci scortano – che è cosa diversa dal guidarci – all’interno della centrale Daichi la ripetono talmente spesso, questa parola, che alla fine la memorizzano tutti, anche i colleghi completamente a digiuno della lingua. La trovi scritta, a caratteri cubitali, ovunque, in Giappone. Soprattutto negli edifici pubblici, nei cantieri. Anche nel colabrodo di Fukushima appare, beffarda, dappertutto. Un cartello anzen daichi (sicurezza, innanzitutto) penzola persino dal tetto posticcio del reattore n.3, quello devastato dall’esplosione e all’interno del quale, due anni dopo l’incidente «imprevedibile» nessuno, neanche i super sofisticati robottini Usa ha rimesso piede. Solo a passarci accanto il contatore geiger che mi sono portato dietro segnala 1600 microsievert l’ora. Poco più di una Tac, a starci per pochi minuti.
Ma penso a quelli che qui ci lavorano, notte e giorno. Penso agli zingari nucleari, che pur di guadagnare qualcosa in più hanno accettato dosimetri taroccati, pazzi loro e criminali quelli che glielo hanno consentito. Penso alle loro mogli, ai loro figli. Li hanno chiamati eroi, kamikaze, lavoratori modello. Oggi i salari sono diminuiti e questi poveracci si ritrovano contaminati, discriminati, abbandonati dalla famiglie. La stampa locale li chiama «divorzi nucleari». Per qualche tempo separati si resiste, ma poi qualcosa si spezza, e arriva la separazione. Anche la pazienza dei giapponesi ha un limite. C’è chi getta la spugna chiedendo il divorzio, chi sparisce, chi si suicida, chi esce fuori di testa. E ci resta, visto la scarsità di medici dell’anima, in Giappone.
È vero: prima di entrare nella centrale ci hanno posto delle condizioni, e, ovviamente, le abbiamo accettate. Vietato portare macchine fotografiche, telefonini. Solo due telecamere «ufficiali», quelle della Bbc e di France 24. Le immagini vengono girate in pool (e quindi rese disponibili a tutte le testate presenti) e i due operatori sono guardati a vista. Ogni inquadratura viene discussa, negoziata, concordata. Qualcuno – tra i quali il sottoscritto – perde la pazienza. Sicurezza? Questi cialtroni hanno il coraggio di parlare di sicurezza quando hanno (quanto meno) contribuito a provocare un incidente nucleare, appestando chilometri di terre e migliaia di cittadini e mantenendo ancora intatto, a due anni di distanza, l’incubo di un apocalisse? Lo chiedo direttamente al nuovo direttore della centrale, Takeshi Takahashi, nel corso della breve apparizione (definire sei domande sei in dieci minuti «una conferenza stampa», sembra esagerato anche per gli standard locali…) Non vi sembra di esagerare? Perché tutta questa solfa sulla sicurezza? Non saremo noi giornalisti un pericolo per la sicurezza? La sicurezza, e non solo dei vostri cittadini, l’avete messa in pericolo voi, o no? Perché non ci fate riprendere liberamente, girare per la centrale, parlare con le maestranze? Perché non ci dite chiaramente come stanno le cose, dov’è finito il nocciolo del reattore n.3, quando pensate di «scaricare» la maledetta «piscina» del n.4, con il suo carico micidiale di carburante spento? Takahashi si schernisce, accenna a delle scuse urbi et orbi, generiche quanto tatemae (posticce), cita regole precise (non c’è cosa più odiosa che sentire gente che viola le regole invocarle quando fa comodo) imposte dalla Aiea (agenzia internazionale per l’energia atomica) e assicura che potremo parlare con alcuni «lavoratori». E ci propina tre manager: uno della Tepco, uno della Mitsubishi, l’altro della Toshiba.
Prima di essere scortati all’uscita, sempre citando «motivi di sicurezza» che non permettono alcuna esitazione, alcun ritardo rispetto alla tabella di marcia, riusciamo a sbirciare il quartiere delle maestranze, al pianoterra. Centinaia di lavoratori che hanno appena finito il turno sono sdraiati per terra, esausti. È chiaro che non avrebbero nessun problema a parlare, anzi, che muoiono dalla voglia di farlo. Ma i soliti «motivi di sicurezza» ci impediscono di farlo. La visita è finita, arrivederci e grazie. Usciamo con molti dubbi ed un paio di certezze: aldilà di tutte le moine, le omertà e le menzogne passate, presenti e probabilmente future la situazione è davvero drammatica. Più che delinquenti incalliti, questi signori della Tepco sembrano degli incompetenti irresponsabili, gente che si è messa a giocare ad un gioco pericoloso e che ora non sa come uscirne.
E a parte i vertici della «vecchia» società – che si sono dileguati prima della nazionalizzazione e dopo aver intascato pingui liquidazioni hanno anche trovato nuove poltrone nel settore – verso i quali non si può non auspicare un interessamento, sia pur tardivo, della magistratura (pare che qualcosa si stia muovendo) non è difficile provare, alla fine, perfino qualcosa di simile all’umana solidarietà per dirigenti, funzionari, impiegati della Tepco. Ce la stanno mettendo tutta, per «mettere in sicurezza» la centrale, e come i 3500 operai che ci lavorano notte e giorno, rischiano la pelle. Non bisogna prendersela con loro, ma con i governi che fin dall’immediato dopoguerra, con le macerie di Hiroshima e Nagasaki ancora fumanti hanno permesso e favorito l’introduzione dell’energia nucleare in un paese che per configurazione geologica e storia politica e sociale avrebbe dovuto essere l’ultimo, al mondo, a compiere questa scelta. E se all’epoca – con il paese appena uscito dall’occupazione – era forse difficile per i governi opporsi ai «suggerimenti» di un ex nemico divenuto improvvisamente protettore e alleato, oggi non vi è più alcun motivo, neanche economico, visti gli enormi costi che un incidente come quello di Fukushima può provocare, per continuare ad imporre al popolo giapponese questa sorta di «roulette russa» nucleare. Cosa altro deve succedere, per abbandonare definitivamente questo maledetto «tavolo»? E cosa aspettano i giapponesi ad imporre, come sembrava fossero riusciti a fare fino a qualche mese fa, prima del ritorno al potere della Balena Gialla, la riattivazione delle centrali (tutt’ora ferme, tranne due) ed il rilancio del settore? È vero che il nuovo premier Shinzo Abe, consapevole del mutato atteggiamento dell’opinione pubblica (ma le proteste, l’abbiamo notato in questi giorni, sono sempre meno intense ed efficaci: il «movimento» sembra aver perso la forza raggiunta l’anno scorso), ha rinviato ogni decisione.
Ma nel frattempo, dalla Francia, è ripartito il primo carico di Mox, il carburante che serve al funzionamento di alcune centrali, compreso un reattore di Fukushima. Qualcuno deve pur averlo ordinato, non è mica un carico di banane.
A differenza della maggior parte dei colleghi che hanno partecipato al «tour» della Tepco, mi fermo a Iwaki, la cittadina a circa 40 chilometri dalla centrale che a differenza di tutte le altre nella zona ha beneficiato dall’incidente. È il centro di smistamento, la «base» per tutti gli «addetti ai lavori», dagli zingari nucleari ai dirigenti dell’Areva, la società francese che «assiste», per la verità tra mille polemiche, la Tepco, dall’esercito di appaltatori ai funzionari governativi. Alberghi sempre pieni – almeno quando chiami e dichiari di essere un giornalista….se prenoti via internet, sui siti giapponesi, una camera alla fine la trovi – ristoranti e bordelli pure. In serata ho appuntamento con Kazuhiro, piccolo imprenditore dell’orbita Tepco, un uomo con spiccato senso degli affari ma con un cuore d’oro, dal «nocciolo» antinucleare. Prima dell’incidente si occupava della manutenzione degli impianti di distribuzione della corrente prodotta dalla centrale, oggi di decontaminazione dei veicoli che vanno e vengono dalla centrale. L’ho conosciuto subito dopo l’incidente. Era rimasto senza lavoro e dava una mano «logistica» (fornendo i mezzi di trasporto) alla moglie, convinta animalista, impegnata nell’opera di salvataggio degli animali domestici abbandonati nella zona evacuata. È grazie a lui che siamo entrati, più di una volta, nella cosiddetta «zona proibita». E ci accingiamo a tornarci, nonostante i controlli, oggi, siano, chissà perché, ancora più rigorosi di un anno e due anni fa, quando la radioattività ambientale era sicuramente più alta di oggi, pressoché sparita. «È per via degli hot spot – spiega Kazuhiro – zone dove si è accumulata, la radioattività. Sono un po’ ovunque, a pelle di leopardo ed il governo non vuole troppa pubblicità sulla questione, visto che ha appena annunciato che chi vuole può ritornare a vivere in una parte della zona a suo tempo evacuata». Lui si è fatto la sua mappa e, fiero di sé, me la mostra. «Vedi quegli asterischi? Sono gli hot spot. Domani ti faccio fare un giro e te li mostro, uno per uno». Lo seguo.
*Articolo di Pio D’Emilia, pubblicato su il manifesto (che ringraziamo) del 12 marzo 2013
http://comune-info.net/
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