D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


venerdì 3 maggio 2013

Qualche nota sul governo Napolitano-Berlusconi-Monti-Letta


napoberludi Aldo Giannuli aldogiannuli.it.
E’ consuetudine chiamare il governo con il nome del Presidente del Consiglio, ma, nella prima Repubblica spesso si faceva seguire a quello il nome del principale alleato, per esprimere la formula di maggioranza. Ad esempio, il secondo governo Andreotti fu definito Andreotti-Malagodi-Tanassi (ma più spesso “Andreotti-Malagodi”) per dire che la formula era Dc-Pli-Psdi, oppure i primi governi di centro sinistra furono chiamati Moro-Nenni e poi Rumor-De Martino per dire che la formula base era l’alleanza Dc-Psi, cui concorrevano in posizione minore Psdi e Pri.
Poi nella seconda repubblica la cosa fu meno chiara, perché in teoria si trattava di governi “omogenei” e dopo il primo governo “Berlusconi, Bossi, Fini” in genere si è usato il solo nome del Presidente del Consiglio seguito dall’eventuale ordinale per dire se si trattava del primo, secondo o terzo governo presieduto da quell’esponente.
Ma questo che ha appena giurato come dobbiamo chiamarlo?
Sino alla fine della prima Repubblica i governi erano di espressione parlamentare e, nel caso di governi di tregua o sostenuti dall’astensione di alcuni partiti, si parlava al massimo di “governi balneari” o “di emergenza”, con il Capo dello Stato che non usciva dalla sua posizione notarile. Dopo sono iniziati i governi nei quali il Presidente aveva un ruolo promotore più deciso (governo Ciampi, poi Dini o “del ribaltone”) ma il Presidente, dopo aver varato il governo, dopo non esercitava alcuna funzione di indirizzo politico.
A partire dal governo Monti le cose sono cambiate e, se pure il governo deve ancora avere la fiducia delle Camere, il Presidente si pone come garante del governo, che è una sua vera e propria emanazione di fronte all’ “impotenza” del Parlamento la cui fiducia è più forzata che ottenuta. Ed il Capo dello Stato non si limita a nominare il Presidente del Consiglio, ma interviene direttamente nella scelta dei ministri e stabilisce anche le linee guida del programma.
Dunque siamo già di fronte ad una evoluzione di tipo semi-presidenziale che volge al modello francese e, pertanto, la  principale figura di riferimento, in questo quadro, è il Capo dello Stato, e questo va registrato nel nome identificativo del governo. E, infatti, in Francia, più che dei governi, si usa parlare delle Presidenze come punto di riferimento (presidenza Mitterrand, Chirac, Sarkozy), mentre il governo assume una sua rilevanza autonoma (sottolineata anche dalla maggiore evidenza del nome del suo Presidente) solo nei periodi di “coabitazione” fra il Presidente di colore politico opposto a quello della maggioranza parlamentare che esprime il governo. Certo, noi abbiamo ancora una Costituzione formale di tipo parlamentare, ma la prassi è già molto oltre –e forse ci manca poco al mutamento anche formale- per cui, se vogliamo descrivere nel nome il senso politico di questo governo, non possiamo che usare il nome del Capo dello Stato come primo identificativo.
Il secondo nome è di diritto quello del maggiore contraente del patto e, sempre allo scopo di privilegiare i processi reali sulle attribuzioni formali, non c’è dubbio che il deuteragonista di questo accordo di maggioranza sia il Cavaliere. Segnaliamo un sintomo di questa posizione dominante del Cavaliere: la Lega  si è astenuta, ma questo è stato fatto solo per evitare che il M5s abbia la presidenza del Copasir, per cui il centro sinistra si avvia a lasciare le chiavi del comitato di vigilanza sui servizi (e forse anche quelle della Commissione di vigilanza Rai) nelle sue mani, pur se per interposta persona e si noti che fra le opposizioni sarebbe scelta la Lega che non è il gruppo maggiore, mentre non sono presi in considerazione né M5s né Sel.
Infine, il motivo più importante, per cui diciamo che l’interlocutore di Napolitano è il Cavaliere, è che il Pd non esiste ed è virtualmente commissariato dal capo dello Stato che gli ha imposto questa soluzione dopo la desolante prova autodistruttiva fornita durante le elezioni presidenziali. Al contrario, Berlusconi è il vero vincitore politico di questa fase, prima perché ha effettuato una spettacolare rimonta in pochi mesi (che lo ha portato alle soglie della vittoria alla Camera e che gli ha permesso di impedire la vittoria del Pd al Senato) e poi perché ha chiaramente vinto il dopo-elezioni ottenendo di confermare Napolitano al Quirinale (che era il massimo cui poteva aspirare con i numeri a sua disposizione) e di imporre la linea del governissimo. Quindi, mi pare che non ci siano dubbi che il vero equilibrio su cui si regge questo governo è il patto Napolitano-Berlusconi e per questo riportiamo nel nome.
Il terzo nome è quello di Monti, ma non tanto in nome della sua sparuta pattuglia di Sc, quanto come punto di riferimento del “partito finanziario” (o se preferite “della Bce”) in seno al governo.
Poi c’è Letta che, almeno per obblighi di cortesia non possiamo omettere: in fondo è il facente funzioni del Capo del Governo. Però, per brevità, possiamo anche accontentarci di chiamarlo governo Napolitano-Berlusconi.
Veniamo poi alla struttura del governo che ha un’ età media molto bassa (e questo non può che far piacere) ed ha questa distribuzione per partito:
-Pd 10 (Presidenza, Sviluppo economico, Ambiente, Istruzione ed Università, Beni Culturali, Regioni e Autonomie, Rapporti con il Parlamento, Integrazione, Pari opportunità)
-Pdl 5 (Vice Presidenza, Interno, Trasporti, Agricoltura, Salute, Riforme Costituzionali)
-Scelta Civica 3 (Giustizia, Difesa, Affari europei)
Radicali 1 (Esteri)
-Udc 1 (Pubblica amministrazione)
-Tecnici 4 ( sottosegretario alla Presidenza, Economia e finanze, Lavoro, Coesione Territoriale).
Dunque, numericamente il Pd ha 9 poltrone su 23, il 39% dei posti in palio, ma questo è un conto puramente matematico che non dice molto, perché certamente l’Interno o gli Esteri non “pesano” quanto i Rapporti con il Parlamento. Per capire meglio facciamo un calcolo ponderale basato sul vecchio caro manuale Cencelli opportunamente rivisto, per cui consideriamo questi valori:
-Presidenza 5
-Vice Presidenza e sottosegretariato alla Presidenza 2
-Ministeri “politici” (Interno, Esteri, Giustizia, Difesa, Economia) 4
-Ministeri di spesa e di indirizzo (Sviluppo economico, Trasporti, Agricoltura, Salute, Ambiente, Lavoro, Istruzione, Beni culturali, Pubblica Amministrazione) 3
-Ministeri senza portafoglio (Affari Europei, Regioni, Coesione territoriale, Rapporti con il Parlamento, Riforme Costituzionali, Integrazione, Pari opportunità) 1.
Pertanto, applicando il calcolo ponderale si ha:
Pd: 21
Pdl: 16
Sc: 9
Radicali: 4
Udc: 3
Tecnici: 10
Ma i tecnici non sono tanto tecnici, perché hanno targhe abbastanza identificabili (così come la Cancellieri che era tecnica ed è entrata in quota Scelta civica) e basta vedere i loro precedenti: Trigilia è sempre stato di sinistra ed è collegato alla fondazione di D’Alema, Filippo Patroni Griffi è un classico grand commis di Stato, socialmente assimilabile ai tecnocrati montiani, ma con passate collaborazioni più orientata a sinistra, e, pertanto vanno considerati in quota Pd; mentre Enrico Giovannini e Fabrizio Saccomanni hanno cv perfettamente sovrapponibili a quelli dei tecnici dell’appena spirato governo Monti e, soprattutto, Saccomanni è chiaramente legato a Draghi. Occorre aggiungere che Giovannini è stato, come del resto Quagliariello, uno dei “saggi” nominati da Napolitano (il che accentua ulteriormente l’esposizione del Capo dello Stato in questo governo).
Pertanto, possiamo riconsiderare così la nostra struttura ponderata, aggiungendo a fianco il peso percentuale sulla base elettorale del governo:
Pd: 24 (38,1%)  (45,27%)
Pdl: 16 (25,4%)  (37,05%)
Sc-Bce:  16 (25,4%)  (14,27%)
Radicali: 4 ( 6,4%)  ( 0,32%)
Udc: 3 ( 4,7%)  (3,07%)
In soldoni questo significa che Pd e Pdl sono sensibilmente sottorappresentati per fare spazio al gruppo  Bce ed ai radicali (che alle elezioni hanno avuto lo 0,19% dei voti ed, ovviamente, nessun eletto). Il senso politico è abbastanza chiaro: assicurare una continuità con gli indirizzi del precedente governo, scongiurare ogni tentazione di rinegoziare gli accordi Ue.
Particolarmente fragoroso è il caso della Bonino che, invece, sta passando come una delle cose più normali del mondo. In mancanza di qualsiasi potere di contrattazione parlamentare dei radicali, c’è da chiedersi sulla base di quale criterio Letta abbia scelto la Bonino per uno dei dicasteri più importanti e delicati. Ci chiediamo sino a che punto non abbia pesato la comune frequentazione dell’Aspen ed il conseguente orientamento filo-americano.  Nel complesso, questa anomala presenza di governo lascia pensare a due possibili motivazioni, una  interna ed una esterna.
Quella interna è quella di attenuare il carattere di “casta” politica di questo governo, giocando la presenza della Bonino e dei radicali in funzione anti M5s. Quella esterna ci sembra debba essere messa in relazione all’evolvere sia della situazione medio orientale (si pensi alla Siria), così da garantire un orientamento dichiaratamente filo israeliano ed antipalestinese, sia di quella europea, in modo da raffreddare una convergenza italiana sulle posizioni francesi che, in questo modo, restano isolate.
Ultima riflessione: se si considerano la presidenza del Consiglio, la sottosegreteria ed i 5 ministeri “politici”, si ottiene che l’età media è di 57 anni (cioè, più o meno quella dei governi precedenti), mentre, per le cariche meno importanti (ministeri di spesa e senza portafoglio), l’età media è 50,87 anni; il che significa che il tanto enfatizzato rinnovamento generazionale si è di fatto limitato solo alla parte meno politica e meno rilevante del governo, il che accentua l’impressione che il questa compagine governativa ci sia un “direttorio” di fatto composto da 7 persone (Letta, Alfano, Patroni Griffi, Bonino, Cancellieri, Saccomanni, Mauro), mentre il resto è di fatto ridotto a funzioni sostanzialmente ornamentali.

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