Per giustificare la richiesta di rimessione dei
suoi processi da Milano a Brescia, Silvio B.
e gli on. avv. Ghedini e Longo hanno scritto alla
Cassazione che una delle prove dell’irrimediabile
prevenzione dell’intero Tribunale di Milano
(circa 300 giudici) è la presenza nel collegio
del processo Mediaset della giudice Alessandra
Galli. Una terrorista? Una tupamara?
No, la figlia del giudice Guido Galli, assassinato
nel 1980 da Prima linea. Tanto basta all’impunito
e ai suoi cortigiani per affermare che i
“tragici fatti di vita personale” della giudice ne
“inficiano certamente la serenità di giudizio”.
Ecco, nemmeno questi campioni mondiali di
spudoratezza erano ancora giunti al punto di
usare la morte violenta di un galantuomo per
conquistarsi l’impunità. Ora l’hanno fatto, e
nessuno degl’indignati speciali che infestano i
giornali, le tv e i palazzi del potere ha trovato
nulla da ridire. Del resto, lo sputo sulla tomba è
diventato un’arma ordinaria di lotta politica. In
campagna elettorale il noto Giovanardi riuscì
ad accusare Ilaria Cucchi di “sfruttare la morte
del fratello” e lo stesso disse il noto Schifani di
Maria Falcone e Rita Borsellino quando si permisero
di criticare il suo padrone per aver definito
“matti e antropologicamente estranei alla
razza umana” tutti i magistrati d’Italia. L’altro
giorno Alessandro Sallusti ha perso una causa
civile contro Mario Calabresi, direttore de La
Stampa e figlio del commissario Luigi Calabresi,
assassinato da un commando di Lotta
continua nel 1972: il Tribunale di Roma l’ha
condannato a risarcire i danni per 75 mila euro
e a una multa di altri 7.500. Ma la notizia non è
la causa che, per i giornalisti italiani, è un incerto
(anzi un certo) del mestiere. È la motivazione
del giudice Serena Baccolini, che riassume
i fatti e l’andamento del processo: un
imperdibile reperto della nostra brutta epoca.
Nell’articolo incriminato, uscito sul Giornale il
25 maggio 2010, Sallusti se la prendeva con
Santoro, reo di aver preteso addirittura la liquidazione
dalla Rai dopo trent’anni di lavoro.
Titolo: “Santoro si vergogna dei soldi”. E giù
insulti ai giornalisti di sinistra che, essendo di
sinistra, dovrebbero lavorare gratis, anzi possibilmente
pagare per lavorare, e se invece pretendono
di farsi retribuire sono incoerenti (la
vecchia polemica cretina sul portafogli a destra
e la tessera a sinistra). Già che c’era, il Sallusti
tirava in ballo Mario Calabresi, che non c’entrava
nulla e oltretutto non è proprio un black
bloc, ma si era permesso alcune critiche a B.,
dunque veniva iscritto d’ufficio “tra gli artefici
della rivoluzione proletaria del '68”, accusato di
essere un traditore passato al servizio “dei giornali
più borghesi”, infine bollato di riconversione
alla sinistra più sanguinaria.
Testuale: “Mario Calabresi sta strizzando l’occhio
a chi gli ha ucciso il padre”. In questi casi
non resta che l’umana pietà per colui che, per
strano che possa sembrare, fu un bravo cronista
e ora, per compiacere al suo padrone, si riduce
ad accusare un collega, fra l’altro nato nel 1970,
di essere “tra gli artefici della rivoluzione proletaria
del '68” e di “strizzare l’occhio” ai killer
del padre. A quel punto il Sallusti, già inopinatamente
graziato da Napolitano per analoghe
nefandezze, avrebbe dovuto arrossire e
scusarsi, invocando magari l’attenuante di
qualche fungo allucinogeno. Invece ha insistito:
in quanto “liberal o moderato di sinistra”,
Mario sarebbe “incoerente e contraddittorio” e
metterebbe “a disagio i cittadini che onorano la
morte del padre”, senza contare che ha financo
osato sposare Caterina Ginzburg, figlia di Carlo
e nipote di Natalia, senza chiedere il permesso
a Zio Tibia. Se il giudice aveva ancora dubbi sul
verdetto, la difesa suicida ha provveduto a dissiparli:
Sallusti ha “esposto fatti non veri” di
“oggettiva portata offensiva” arrecando alla vittima
“disagio e sofferenza” con la gratuita citazione
della morte del padre. Vergogniamoci
per lui.
D'un tratto nel folto bosco
Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz
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