- di Toni Ferrara e Gabriele Cappadona -
Quante volte vi sarà capitato di uscire dalla città, per una gita fuori porta? Tutte quelle volte avete attraversato vaste distese dove la traccia del lavoro umano è talmente presente da non permettere di trovare un angolo che si possa considerare davvero selvaggio. Eppure l’occhio dell’uomo, nel suo bisogno di economizzare le informazioni, raramente dirige la sua attenzione alle trame regolari di quel territorio.
Ebbene, “la campagna” vive da anni un durissimo periodo di crisi, una crisi che ha preceduto di molto quella che ha colpito i mercati nel 2008. Una crisi che ha portato alla chiusura di migliaia di aziende agricole, allo svuotamento del territorio, all’abbandono dei campi. Prova a notare, nella tua prossima gita fuori porta, quanti campi restano oggi incolti e quanti frutteti aspettano una potatura da anni. Dal 1990 al 2010 la SAU (superficie agricola utilizzata) in Sicilia è passata da 1.913.841 ettari a 1.387.559 ettari: un decremento del 27,5%. Se prendiamo in considerazione la superficie coltivata a grano duro (coltura nella quale la Sicilia raggiunge da sempre risultati qualitativamente eccellenti) i dati sono ancora più tetri, si passa da 443.620 ettari nel 1990 ai 200.778 ettari nel 2010: un decremento del 45% (fonte Istat). Il granaio d’Italia non fa più grano. Farà banane? No, semplicemente si preferisce non lavorare le terre perché la maggior parte delle aziende agricole alla fine della annata agraria restano in perdita. L’agricoltura, dall’essere settore primario dell’economia, sta divenendo per noi siciliani un hobby, per altro piuttosto costoso. In compenso, però, noi siciliani vantiamo un’industria assai sviluppata e un settore terziario di tutto rispetto… sto scherzando ovviamente!
La ragione di un tale decremento della superficie coltivata è da attribuire a tanti diversi e variegati fattori, tra tutti le politiche agricole comunitarie, l’apertura ai mercati globali, l’inefficacia delle politiche di incentivazione alla formazione delle filiere agro-alimentari. Oggi, ad affogare l’agricoltore, concorrono anche il Ministero dell’Agricoltura e l’Unione Europea, sotto la pressione delle lobby. Esagerando, potrei dire che le istituzioni, da un lato, e le lobby, dall’altro (potremmo salire ancora, ma temo le vertigini), sono due facce di una stessa medaglia. Lascio al lettore una riflessione su quanto recentemente normato e istituito in seno al Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali: il registro dei lobbisti. Sul sito del Ministero sono riportati nomi e cognomi. L’hanno chiamato “Unità per la Trasparenza“.
Tornando a noi, per chiarire meglio i meccanismi con cui questo sistema affoga l’agricoltore, voglio mostrare nel dettaglio un esempio: l’obbligo di utilizzo di semente certificata per il grano duro per accedere agli aiuti direttidi cui all’art. 68 del regolamento (CE) 73/2009 del Consiglio. Tradotto sarebbe: tu agricoltore non puoi riseminarti i semi, devi comprarli ogni anno dall’industria sementiera! Tale obbligo, in seguito alle proteste degli agricoltori, era decaduto del 2010 e nel 2011 col decreto ministeriale 25 febbraio 2010. Questa liberalizzazione nell’uso delle sementi aveva portato a una riduzione del 50% della vendita di seme certificato di grano duro, dato che molti agricoltori ritenevano più conveniente riprodursi la semente in azienda.
La reintroduzione dell’obbligo di usare semente certificata (ripristinato dal DM n° 8139 del 10/08/2011 successivamente approvato dalla Commissione europea con regolamento di esecuzione del 25/11/2011) è stata ripristinata dopo i ‘disperati’ allarmi lanciati da Assosementi sulla crisi del settore sementiero. Una furente campagna mediatica da parte di Assosementi e le pressioni sul Ministero dell’Agricoltura hanno rapidamente ripristinato la situazione iniziale. Dal 2012 quindi, i granicultori sono costretti ad acquistare la semente dal sementiere (l’obbligo non è esteso ai nostri concorrenti europei).
Invito il lettore a riflettere su una cosa: l’agricoltore, quando deve vendere le sue produzioni, è costretto ad adattarsi alle regole del libero mercato; quando invece deve comprare i mezzi tecnici per la produzione, è obbligato a farlo entro un regime distorto e protezionista – verso i sementieri – che lo obbliga ad acquistare da loro la semente. Si ledono così i più elementari principi di libertà di impresa. Il libero mercato vale solo quando dobbiamo vendere (anzi svendere) le nostre produzioni, le quali sono soggette ai prezzi dei mercati globali. Il prezzo dei mezzi tecnici di produzione è invece fortemente determinato da un regime protezionista in favore della industria sementiera nel caso delle sementi.
Ne dico un’altra: questo obbligo esiste solo per il grano duro, che viene coltivato prevalentemente nelle regioni del sud, dove il rapporto tra superficie a grano duro e superficie a grano tenero è di 12 a 1, mentre il contrario è vero per le regioni del nord. Quindi quest’obbligo ricade solo sugli agricoltori del sud e segnatamente della Sicilia. L’aspetto divertente è che l’art. 68, di cui ho parlato qualche riga sopra, è legato alla realizzazione dipratiche agronomiche sostenibili dal punto di vista ambientale, come ad esempio le rotazioni agrarie. Non si capisce come il grano cartellinato possa risultare più sostenibile di un grano aziendale a chilometro zero. La Commissione europea aveva infatti contestato l’introduzione di questo obbligo in una misura, come quella dell’avvicendamento (le rotazioni agrarie), che ha un carattere prettamente ambientale. Per rispondere a tali obiezioni, il decreto ministeriale 25 febbraio 2010 aveva soppresso l’obbligo della semente certificata di grano duro (quindi nelle semine autunnali 2010 e 2011).
Aggiungo che, nonostante il grano cartellinato generalmente sia frutto di selezioni fatte portando le sementi in aereo da un emisfero all’altro per permettere di avere due germinazioni all’anno e per accelerare così i tempi di selezione e in barba al fatto che (a processo di selezione avvenuto) la semente prodotta dall’industria sementiera viaggia dalle unità produttive ai centri di stoccaggio per arrivare infine ai campi, hanno il coraggio di dire che si risparmia in emissioni di CO2 rispetto alla semente prodotta in azienda, per definizione a chilometro zero. Si tratta di un falso, con uno studio commissionato ad hoc ad Horta (uno spin-off dell’università Cattolica) dal Ministero e Assosementi insieme. Non ti deve stupire che questo studio non sia stato mai pubblicato e che sia impossibile averne una copia pur avendone fatto richiesta alla Horta.
Nella quasi totalità dei casi, in Europa non esiste alcun collegamento forzoso tra l’uso della semente certificata e il percepimento dei contributi comunitari. L’autoriproduzione aziendale del seme è molto diffusa ovunque. Forse, però, non è un caso che la nostra regione sia stata finora penalizzata:”] alla Conferenza Stato-Regioni (l’alveo nel quale vengono recepiti questi scandali ingiusti), erano presenti tutte le regioni ad eccezione della ….? Comincia con la S.! Ti Vi do un aiutino: la chiamavano il granaio d’Italia. Esatto! Il nostro assessore di turno era troppo occupato quel giorno. La cosa però che più desta rabbia tra gli operatori del comparto cerealicolo è che questo meccanismo è a tutti gli effetti un trasferimento diretto dall’Unione Europea ai sementieriattraverso quella che si definirebbe una “partita di giro”. Gli agricoltori ricevono i contributi comunitari e ne versano una parte all’industria sementiera.
A questo punto non ti stupirà nemmeno che il procuratore aggiunto di Roma Lello Rosso ha affermato, lo scorso dicembre, che “quasi tutte le attività del Ministero delle Politiche agricole sono state inquinate da una corruzione diffusa, variegata e circolare” e che “c’era un vero e proprio giro di privilegi e malaffare. Ci troviamo di fronte a un sistema in cui c’è una spesa pubblica che dovrebbe essere interessata a favorire un settore importante come l’agricoltura e la pesca e che invece viene distorta e inquinata da un’attività corruttiva diffusa”.
Di fronte ad un tale stallo, di fronte a questo muro di conflitti d’interesse, ad alzare la voce contro questo sistema predatorio sono solo quelle associazioni di categoria che per loro tradizione sono slegate da interessi privatistici e che hanno sempre mantenuto un rapporto di conflittualità dialettica con le istituzioni e con i centri di potere informale, come il Codifas (Consorzio di difesa dell’agricoltura siciliana), che ha sollevato all’Ars la questione.
Tratto da: “Per un pugno di grano”, il ricatto dell’Europa ai coltivatori siciliani costretti a comprare le sementi per accedere ai fondi comunitari | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/03/21/per-un-pugno-di-grano-il-ricatto-delleuropa-ai-coltivatori-siciliani-costretti-a-comprare-le-sementi-per-accedere-ai-fondi-comunitari/#ixzz2OFR9h5SW
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
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