- Michele Paris -
La settimana appena iniziata dovrebbe finalmente segnare la nascita di un governo parallelo in Siria guidato dai leader dell’opposizione ufficiale al regime di Bashar al-Assad e al servizio dell’Occidente. Gli ennesimi negoziati per raggiungere un punto d’incontro tra le varie fazioni “ribelli” si sono aperti lunedì a Istanbul, anche se le divisioni al loro interno sul modo migliore per ottenere una maggiore assistenza economica e militare dagli sponsor stranieri minacciano ancora una volta di far saltare un possibile cruciale accordo da presentare alla comunità internazionale.
A produrre la principale frattura all’interno della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione era stato l’attuale presidente, l’ex imam sunnita e già funzionario della Shell, Moaz al-Khatib. Quest’ultimo, infatti, da qualche tempo ha aperto uno spiraglio di dialogo con le forze del regime, riflettendo l’auspicio di svariati governi occidentali di raggiungere una qualche soluzione politica del conflitto con il consenso della Russia, uno dei pochi alleati rimasti al presidente siriano Assad.
A questo proposito, Khatib starebbe continuando nel suo sforzo di convincere alcuni esponenti della cerchia di potere di Assad ad accettare l’ingresso in un nuovo governo di transizione con i membri dell’opposizione. In molti all’interno della Coalizione e sul campo in Siria si oppongono però a queste aperture, soprattutto tra coloro che fanno riferimento a gruppi islamisti legati alle dittature sunnite del Golfo Persico (Arabia Saudita, Qatar), i quali non intendono abbandonare la lotta armata fino alla rimozione del regime alauita (sciita) di Damasco.
La necessità di avere ancora del tempo a disposizione per provare a formare un gabinetto che includa uomini vicini ad Assad era stato il motivo del rinvio voluto da Khatib del vertice dell’opposizione in programma già un paio di settimane fa. Il presidente della Coalizione, però, sembra avere infine ceduto alle pressioni e avrebbe dato ora il suo assenso alla nomina di un esecutivo provvisorio guidato da un primo ministro scelto dai 73 membri del gruppo di cui è a capo.
Questo passo è d’altra parte considerato fondamentale per i ribelli, poiché aprirebbe la strada al riconoscimento formale da parte dell’Occidente. I governi di Washington, Londra e Parigi, infatti, hanno bisogno di presentare all’opinione pubblica internazionale l’immagine di un’opposizione non solo unita ma anche organizzata in modo tale da essere teoricamente in grado di fornire adeguati servizi alla popolazione nelle aree della Siria strappate al controllo governativo. In questo modo, le tenui resistenze alla fornitura di armamenti ai ribelli manifestate da alcuni paesi occidentali verrebbero con ogni probabilità superate.
Questa strategia appare tuttavia sempre più come una manovra di facciata, dal momento che l’autorità sul campo della Coalizione – formata principalmente da islamisti legati ai Fratelli Musulmani, dissidenti screditati in esilio e uomini a libro paga dei servizi segreti occidentali – rimane quasi nulla, in particolare sui gruppi terroristi islamici come il Fronte al-Nusra che continuano ad essere utilizzati come avanguardie nella guerra contro le forze del regime. Come ha scritto domenica il Wall Street Journal, infatti, “i guerriglieri ribelli rifiutano sempre più l’autorità dei membri dell’opposizione, soprattutto di quelli che si trovano all’estero. Le fazioni islamiste, in particolare, stanno già creando proprie strutture politiche”, verosimilmente all’insegna del settarismo sunnita.
Qualsiasi governo dovesse uscire dal vertice di Istanbul superando le divisioni interne, in ogni caso, non sarebbe altro che un rappresentante dei governi occidentali che intendono promuovere i propri interessi nella Siria del dopo Assad, a cominciare dagli Stati Uniti, i quali avevano patrocinato la creazione della stessa Coalizione Nazionale lo scorso novembre in un hotel di lusso a Doha, in Qatar, per rimpiazzare l’ormai screditato e inefficace Consiglio Nazionale Siriano.
Dopo due anni di guerra, i ribelli controllano un’ampia sezione di territorio siriano nel nord del paese al confine con la Turchia, un’altra porzione di territorio a est vicino all’Iraq e buona parte della città più popolosa, Aleppo, e di Raqqa, capoluogo dell’omonimo distretto settentrionale. Inoltre, in seguito a scontri con le forze di sicurezza del regime, i ribelli hanno anche messo le mani su alcune località meridionali nei pressi delle Alture del Golan occupate da Israele, tra cui, secondo quanto riportato in questi giorni dai media internazionale, un complesso dell’intelligence militare sull’altopiano di Hawran conquistato domenica scorsa.
L’impegno in quest’area dell’opposizione armata, la quale recentemente ha anche preso in ostaggio e poi rilasciato alcuni caschi blu filippini dispiegati nelle Alture del Golan, ha già provocato tensioni tra Damasco e Tel Aviv ed è tutt’altro che da escludere che le provocazioni dei ribelli intendano produrre una reazione da parte di Israele per aprire un nuovo fronte in cui impegnare l’esercito regolare.
Gli sforzi per la creazione di un governo provvisorio vanno di pari passo con quelli messi in atto in questi giorni dai governi di Francia e Gran Bretagna per convincere gli altri membri dell’Unione Europea a cancellare l’embargo sul trasferimento di armi in Siria attualmente in vigore. Parigi e Londra hanno fatto sapere nel corso del summit di Bruxelles della settimana scorsa di essere pronti a prendere provvedimenti unilaterali nel caso a fine maggio l’UE dovesse prolungare nuovamente l’embargo per entrambe le parti impegnate nel conflitto.
Particolarmente assurdo è stato il discorso a sostegno della fornitura diretta di armi all’opposizione siriana fatto dal primo ministro britannico, David Cameron. Secondo quest’ultimo, pur essendo “una soluzione politica e non militare” ciò che serve in Siria, essa sarebbe più probabile se le forze democratiche dell’opposizione fossero rafforzate, cioè se venissero rifornite di armi letali.
In altre parole, il premier conservatore ha affermato di auspicare una soluzione politica, e quindi pacifica, per la crisi siriana promuovendo al contempo un flusso di armi nel paese che farebbe aumentare ulteriormente un livello di violenza già drammatico. Armi, oltretutto, che andrebbero a finire in buona parte nelle mani di gruppi estremisti già responsabili di innumerevoli stragi di civili e non esattamente disponibili ad un accordo politico per porre fine al conflitto.
A guidare i contrari all’abrogazione dell’embargo sono per ora i governi di Germania e dei paesi scandinavi. Berlino, in particolare, teme che un aggravarsi del conflitto potrebbe portare al precipitare della situazione in Siria, provocando un muro contro muro tra l’Occidente e la Russia, con la quale il governo tedesco non intende guastare la fruttuosa cooperazione economica ed energetica che lega i due paesi.
Nel fine settimana, poi, alcuni giornali hanno riportato quelle che sarebbero le perplessità di molti diplomatici occidentali e arabi nei confronti della posizione ancora relativamente attendista di Washington, da dove l’amministrazione Obama continua ad opporsi alla fornitura diretta di armi ai ribelli. Le dichiarazioni quasi sempre anonime raccolte servono però più che altro a confondere le idee e a mascherare una realtà nella quale gli Stati Uniti sono da tempo in prima linea nella campagna internazionale per rimuovere Assad.
Se pure a livello ufficiale hanno finora stanziato denaro solo a fini “umanitari” e fornito ai ribelli materiale “non letale”, gli USA, tra l’altro, hanno assunto la direzione del traffico di armi dirette in Siria e provenienti da Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, così come hanno inviato unità speciali della CIA in Giordania per addestrare centinaia di guerriglieri da impiegare nella guerra contro Assad.
La politica sconsiderata così perseguita dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Siria, e le conseguenze ancora più pesanti che attendono questo paese, è riconosciuta indirettamente anche da personaggi di spicco come il generale James Mattis, numero uno del Comando Centrale americano che include le forze armate stanziate in Medio Oriente. Secondo l’alto ufficiale statunitense, infatti, la caduta di Assad “non rappresenterà la fine [della crisi in Siria], bensì creerà le condizioni per la continuazione del conflitto settario nel paese e probabilmente nell’intera regione”.
Il generale Mattis ha poi aggiunto, nel corso di una recente audizione al Senato USA, che il crollo del regime di Damasco spingerebbe l’Iran ad intensificare il proprio impegno a favore delle milizie sciite armate in Siria per creare una situazione simile a quella del Libano con Hezbollah ma anche ad intensificare gli sforzi per aumentare la propria influenza in Iraq, in Bahrain, in Yemen e altrove.
Uno scenario del tutto probabile quello dipinto dal generale americano, ma che, oltre a rivelare ancora una volta la vera natura degli interessi strategici in gioco nella crisi siriana, manca di evidenziare come una simile reazione da parte di Teheran non sarebbe altro che l’inevitabile risposta al disegno occidentale e arabo-sunnita volto ad isolare la Repubblica Islamica sciita, eliminando l’alleato Assad attraverso l’appoggio garantito a gruppi armati profondamente reazionari presentati in maniera instancabile all’opinione pubblica internazionale come veri e propri campioni di progresso e democrazia.
Tratto da: Siria, l’Occidente affila le armi | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/03/19/siria-loccidente-affila-le-armi/#ixzz2NyHpbLrh
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
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