D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


sabato 29 settembre 2012

Bimbi a digiuno: l’austerity pelosa dei ladri



Anna Lombroso per il Simplicissimus
Si autodefiniscono comuni “virtuosi”, quei probi enti locali che presentano bilanci meno sgangherati e bricconi delle varie amministrazioni salite agli onori della cronaca giudiziaria. Verrebbe però da interrogarsi su certe virtù più pelose delle carità. Ve ne sono magari alcuni che si dedicano a lungimiranti e oculati esercizi di risparmio energetico, di razionalizzazione dei servizi. Ma in altri la lezione dell’austerità punitiva ha attecchito come un vizio contagioso, per la perversa tentazione di fare bella figura con chissà che fantasmatica autorità di controllo pronta a dare bei voti ai tagli, più che con i cittadini chiamati a partecipare di questa esibizione di composto sacrificio collettivo.
E si è radicata anche quell’aspirazione di matrice pedagogica, che piace tanto al governo, a educare i cittadini secondo una didattica dimostrativa ed esemplare perché si pentano di chissà che esuberanze consumate nei tempi delle vacche grasse, perché si ficchino in quelle benedette teste che i diritti vanno pagati, che spetta alle autorità erogarli secondo propri criteri di merito, che l’welfare non c’è più per colpa di qualcuno: di quelli che se ne sono approfittati, degli immigrati che non se lo meritavano, dei cittadini sleali che si sono fatti prescrivere medicine inutili, dei meridionali parassitari che pesano sul nord operoso – perché i comuni virtuosi insistono soprattutto in quei territori e i morigerati irriducibili sono bi partisan. Mentre non si fa molta menzione di poco frugali dirigenti politici, di poco temperanti amministratori convinti dal gioco d’azzardo dei derivati, dell’egemonia bancaria che ha rapinato e continua a sottrarre risorse, di grandi evasori spesso riconoscibili in integerrimi concittadini, preoccupati delle rapine in villa.
Così a Brescia, è stato negato l’accesso ai servizi di trasporto e mensa a 321 bambini,” indigeni” e non, di cui i 72 del campo nomadi di via Borgosatollo. Per il comune la soluzione è solo una: le famiglie paghino i debiti, o non se ne fa niente. più penalizzati sono i piccoli che devono raggiungere la scuola dall’accampamento rom, percorrendo strade trafficate. Ma fa sapere il Comune, attento a criteri di equità, se “transigessimo per quei 72, commetteremmo un’ingiustizia verso gli altri 249”. E per quanto riguarda poi la mensa, il Comune propone rateizzazioni dei debiti delle famiglie morose o una soluzione “domestica”: i bambini, compresi i 72 costretti a un percorso da rally, potrebbero pranzare a casa e poi tornare alla scuole dell’obbligo, dove i servizi e l’uguaglianza sono invece un optional.
All’Ada Negri di Cavenago invece ai figli delle 120 famiglie ree di non pagare la retta viene concesso di accedere a un corner allestito alla bisogna per mangiare quello che si sono portati da casa, nel ghetto della “sciscetta” o della rosetta. Ma non c’è malizia, per carità, in questa procedura di esclusione e emarginazione: il Comune guidato da un sindaco di centro sinistra è ligio alla norma che proibisce di far entrare nei locali della mensa cibi preparati altrove, insomma prodotti che non provengano dalla società che fornisce il servizio di ristorazione, la multinazionale francese Sodexo (un fatturato da 16 miliardi e 47 milioni di euro) che reclama dal Comune la liquidazione degli arretrati. Anche in questo caso tra i 120 “discriminati” e schedati come morosi ci sono figli di immigrati ma ormai la qualità del razzismo è cambiata o è diventata più esplicita, sono i poveri di qualsiasi colore e qualunque sia il sapore del contenuto del tegamino, a subire la segregazione come una punizione. Anche gli indigeni sono indigenti e vengono colpiti là dove sono più vulnerabili, che i figli so’ piezzi e core e così il povero paga con una doppia vergogna, nei confronti del creditore e delle proprie creature che scontano con l’isolamento, con una diversità inspiegabile.
In pieno primato dell’ideologia della precarietà, solo la miseria è inflessibile. E colpisce con un senso di perdita irrimediabile anche in quei territori che si credevano inviolabili dalla povertà, quelli del Nord opulento, nei quali la regressione economica si connette a un coevo declassamento civile, e la privazione viene intesa come una sottrazione di qualcosa che sembrava naturale e inalienabile. E che ha prodotto e produrrà rancore, risentimento e quella invidia livorosa che una volta aveva una sua verticalità, dal basso verso l’alto. E che ora invece si sviluppa orizzontalmente, tra uguali e perfino in chi sta giù, al di sotto, colpevole di esistere, di aspirare al poco che si possiede, anche solo alla rabbia che tutti rivendicano, come un privilegio.
Nell’espropriazione che stiamo subendo quella della solidarietà è la rapina più atroce. Condanna corpi nudi e indifesi all’emarginazione e alla solitudine in paesaggi sempre più poveri di bellezza e armonia, sottoposti alla feroce prova dello spaesamento in territori geografici e umani deformati dalla speculazione e dal profitto, tra le spire di svincoli, tangenziali, al cospetto delle nuove cattedrali dell’outlet, imbarbariti e ostili alle relazioni, agli affetti all’aiuto reciproco, alla civiltà.

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