Equitalia
è sinonimo di ingiustizia, di cartelle pazze, di violenza. Alcuni,
rispondono con altrettanta violenza. Ma cosa è successo perché la
situazione diventasse così grave? Perché su Equitalia si concentra
l’odio dei cittadini? E che cosa significa, Equitalia? Linkiesta ne ha
discusso con Carlo Lottieri, filosofo liberale e fondatore del centro
studi Istituto Bruno Leoni. E spiega che Equitalia è il nervo scoperto
di uno stato che ormai è fallito.
Uno striscione contro Equitalia
14 maggio 2012
L’Italia in rivolta si lancia contro Equitalia. A Napoli un
assalto, a Milano due esattori vengono aggrediti. A Roma arriva un pacco
bomba. E poi minacce, insulti, odio. Equitalia catalizza tutto questo,
tanto che i suoi dipendenti, adesso, hanno davvero paura. Il fisco e gli
esattori, dalla notte dei tempi, non sono mai piaciuti a nessuno. Ma la
situazione è inaudita, e non è nemmeno da ricondurre alle inefficienze
amministrative o alle cartelle pazze, come spiega a Linkiesta Carlo
Lottieri, filosofo liberale italiano e uno dei fondatori dell’Istituto
Bruno Leoni. Secondo lui la questione è più complessa e senz’altro più
grave.
Perché c’è tutto questo odio contro Equitalia?
Equitalia è una parte del sistema fiscale italiano, molto complesso e stratificato (basti dire che nel sistema fiscale vi è anche la Guardia di Finanza, che è parte dell’esercito). Di per sé, il problema non è Equitalia. O meglio, Equitalia è solo la manifestazione di una questione più profonda, che rinvia all’estrazione di risorse da parte del potere politico. Nel corso della storia, l’imposizione fiscale si è affermata grazie a quell’insieme di condizioni culturali e istituzionali che, nel tempo, è riuscita a consolidare. E che ora in Italia stanno venendo meno.
Cioè?
L’imposizione fiscale è sempre stata legata alla rappresentanza: “no taxation without representation”, come recitavano i coloni americani in rivolta con il Parlamento britannico. Ma ancor prima, quando lo stato moderno ha mosso i suoi primi passi lo stato moderno (al tempo del cosiddetto “stato dei ceti”), l’imposizione fiscale si è affermata grazie a una negoziazione tra il monarca e i rappresentanti dei gruppi sociali da cui lo stato poteva ottenere risorse. Essenzialmente, in quella fase, per condurre le guerre. Ma ora le cose sono molto cambiate, soprattutto in Italia.
Cosa è cambiato?
In primo luogo la rappresentanza, che non c’è più. Alla base della protesta contro Equitalia c’è uno scollamento che discende dalla delegittimazione della classe dirigente nel suo insieme. Questo mi pare il punto cruciale. Non si riconosce più il motivo, la ragione, la giustizia del prelievo fiscale. Anche perché, nel corso del Novecento, stato e tassazione sono cresciuti in maniera abnorme, mentre allo stesso tempo si sono progressivamente erosi i pilastri ideologici che reggevano il potere e le narrazioni che lo portavano ad autocelebrarsi. Se guardiamo ai nostri nonni, vediamo una differenza enorme: loro, per lo Stato, erano disposti a morire. E spesso sono effettivamente morti. Chi di noi lo farebbe, oggi? La sensibilità è molto cambiata: la retorica dell’unità, della nazione, ora non funziona, anzi.
Non sarà solo una questione di disincanto?
No, ma anche quello è forte. Le ragioni comunque sono molte. L’Italia, come la Germania, è arrivata assai tardi a darsi una formazione statale compiuta: lo sappiamo bene. L’avvento del nazionalismo, che ha avuto il suo apogeo con il fascismo, ha prodotto i disastri che conosciamo. Con questa eredità alle spalle, è difficile che da noi s’imponesse un’idea di nazione. Non dimentichiamo, per giunta, che i nostri sono tempi di una globalizzazione che ci pone in continuo contatto con stranieri venuti in Italia e che in questo contesto la logica della solidarietà interna, tra persone di diverse regioni italiane, non regge più. Non è facile capire perché dovremmo essere più solidali con un connazionale che neppure conosciamo e non con un amico che ha un passaporto diverso.
Ma questo che c’entra con Equitalia?
È il punto iniziale: il terreno della coscienza nazionale, in Italia, è instabile. Direi fragilissimo: e su di esso non si può costruire nulla. Soprattutto, lo stato non può chiedere sacrifici appellandosi a questo. Nemmeno la Costituzione è in grado di funzionare da collante. Anzi, direi che è un imbroglio: perché si fonda sul fatto che il popolo detenga un potere costituente.
È così.
Non proprio. Il potere è stato esercitato, in forma mediata e con la mediazione di rappresentanti, sessant’anni fa. Da lì in poi è stato tolto al popolo, che ora è vincolato da decisioni prese da altri e nel passato. Ad esempio non può chiedere referendum in materia fiscale o per decidere sul distacco di una parte del Paese. Per questo, dico, questa democrazia è quanto meno zoppa.
Ma lo stato agisce, in ogni caso, per il bene collettivo.
Forse dovrebbe essere così, ma certo le cose vanno in altro modo. Ma all’inefficienza dei servizi pubblici e all’utilizzo assai disinvolto delle risorse provenienti dalla tassazione, bisogna aggiungere che manca una classe governante che abbia sincerità di dire: “le cose sono state gestite male e in modo ingiusto. Adesso cerchiamo di farlo in modo davvero diverso”. Questo ceto differente e nuovo non c’è. Nemmeno i tecnici (che non sono tecnici, ma in molti casi soltanto politici in pectore di uno scenario tutto da definire), hanno l’intenzione di cambiare lo status quo: smettendo di penalizzare i tax-payers, cioè chi paga le tasse, i produttori, gli imprenditori, i lavoratori dipendenti del privato, e iniziando a penalizzare i tax-consumers, cioè chi vive sulle tasse pagate dagli altri. Abbiamo insomma dinanzi a noi uno squilibrio insano e gravissimo, che chi è strutturalmente penalizzato dal sistema non vede compensato nemmeno dai risultati della spesa pubblica, dai servizi, dalla buona amministrazione.
E qui arriva Equitalia.
Esatto, è lo snodo, il nervo scoperto di tutte queste dinamiche. Lo stato esercita la sua pressione non chiedendo più la vita dei cittadini (come accadeva in passato), ma introducendosi nelle loro proprietà in modo sempre più invasivo e violento. Per giunta, agli occhi di larga parte dei produttori non appare più legittimato a farlo. E tutto questo porta al punto essenziale: e cioè al fatto che la mancanza di senso dello stato, la scarsa efficienza dell’impiego delle risorse acquisite con il prelievo fiscale e la totale delegittimazione (anche formale) delle istituzioni statali sono fattori che si intrecciano, portando a Equitalia. Il braccio fiscale del Leviatano, diciamo così, finisce per essere al centro delle pulsioni, dello scontro, della rabbia dei cittadini. Ma sia chiaro: ogni forma di violenza nei confronti delle persone che lavorano per Equitalia è sbagliata. Si tratta di un attacco nei confronti di innocenti. È il sistema che va cambiato.
Insomma, con Equitalia lo stato ha violato il patto con i cittadini?
Sì, soprattutto perché quel patto – se mai è esistito – ora si è del tutto dissolto. Per giunta il paese a questo punto è spaccato. La società è sempre più divisa tra tax-payers (quanti danno più di quello che ricevono) e tax-consumers (quanti ricevono più di quello che danno). Da un lato crescono le pulsioni di odio contro Equitalia (e sono i tax-payers) e, dall’altro lato, in via parallela, quelle contro gli evasori (e stavolta sono i tax-consumers). Cartelle pazze e blitz a Cortina. Per certi aspetti, sebbene in forma imperfetta, questa tensione tra danneggiati e beneficiari è anche una contrapposizione geografica: Nord e Sud. Va pure aggiunto, e questo spiega molto, che tra Milano e la Calabria c’è da una distanza economica che non si ritrova in nessun’altra parte d’Europa. Niente di nuovo, quindi. Solo che ora, in mezzo a tutto ciò c’è Equitalia.
Perché c’è tutto questo odio contro Equitalia?
Equitalia è una parte del sistema fiscale italiano, molto complesso e stratificato (basti dire che nel sistema fiscale vi è anche la Guardia di Finanza, che è parte dell’esercito). Di per sé, il problema non è Equitalia. O meglio, Equitalia è solo la manifestazione di una questione più profonda, che rinvia all’estrazione di risorse da parte del potere politico. Nel corso della storia, l’imposizione fiscale si è affermata grazie a quell’insieme di condizioni culturali e istituzionali che, nel tempo, è riuscita a consolidare. E che ora in Italia stanno venendo meno.
Cioè?
L’imposizione fiscale è sempre stata legata alla rappresentanza: “no taxation without representation”, come recitavano i coloni americani in rivolta con il Parlamento britannico. Ma ancor prima, quando lo stato moderno ha mosso i suoi primi passi lo stato moderno (al tempo del cosiddetto “stato dei ceti”), l’imposizione fiscale si è affermata grazie a una negoziazione tra il monarca e i rappresentanti dei gruppi sociali da cui lo stato poteva ottenere risorse. Essenzialmente, in quella fase, per condurre le guerre. Ma ora le cose sono molto cambiate, soprattutto in Italia.
Cosa è cambiato?
In primo luogo la rappresentanza, che non c’è più. Alla base della protesta contro Equitalia c’è uno scollamento che discende dalla delegittimazione della classe dirigente nel suo insieme. Questo mi pare il punto cruciale. Non si riconosce più il motivo, la ragione, la giustizia del prelievo fiscale. Anche perché, nel corso del Novecento, stato e tassazione sono cresciuti in maniera abnorme, mentre allo stesso tempo si sono progressivamente erosi i pilastri ideologici che reggevano il potere e le narrazioni che lo portavano ad autocelebrarsi. Se guardiamo ai nostri nonni, vediamo una differenza enorme: loro, per lo Stato, erano disposti a morire. E spesso sono effettivamente morti. Chi di noi lo farebbe, oggi? La sensibilità è molto cambiata: la retorica dell’unità, della nazione, ora non funziona, anzi.
Non sarà solo una questione di disincanto?
No, ma anche quello è forte. Le ragioni comunque sono molte. L’Italia, come la Germania, è arrivata assai tardi a darsi una formazione statale compiuta: lo sappiamo bene. L’avvento del nazionalismo, che ha avuto il suo apogeo con il fascismo, ha prodotto i disastri che conosciamo. Con questa eredità alle spalle, è difficile che da noi s’imponesse un’idea di nazione. Non dimentichiamo, per giunta, che i nostri sono tempi di una globalizzazione che ci pone in continuo contatto con stranieri venuti in Italia e che in questo contesto la logica della solidarietà interna, tra persone di diverse regioni italiane, non regge più. Non è facile capire perché dovremmo essere più solidali con un connazionale che neppure conosciamo e non con un amico che ha un passaporto diverso.
Ma questo che c’entra con Equitalia?
È il punto iniziale: il terreno della coscienza nazionale, in Italia, è instabile. Direi fragilissimo: e su di esso non si può costruire nulla. Soprattutto, lo stato non può chiedere sacrifici appellandosi a questo. Nemmeno la Costituzione è in grado di funzionare da collante. Anzi, direi che è un imbroglio: perché si fonda sul fatto che il popolo detenga un potere costituente.
È così.
Non proprio. Il potere è stato esercitato, in forma mediata e con la mediazione di rappresentanti, sessant’anni fa. Da lì in poi è stato tolto al popolo, che ora è vincolato da decisioni prese da altri e nel passato. Ad esempio non può chiedere referendum in materia fiscale o per decidere sul distacco di una parte del Paese. Per questo, dico, questa democrazia è quanto meno zoppa.
Ma lo stato agisce, in ogni caso, per il bene collettivo.
Forse dovrebbe essere così, ma certo le cose vanno in altro modo. Ma all’inefficienza dei servizi pubblici e all’utilizzo assai disinvolto delle risorse provenienti dalla tassazione, bisogna aggiungere che manca una classe governante che abbia sincerità di dire: “le cose sono state gestite male e in modo ingiusto. Adesso cerchiamo di farlo in modo davvero diverso”. Questo ceto differente e nuovo non c’è. Nemmeno i tecnici (che non sono tecnici, ma in molti casi soltanto politici in pectore di uno scenario tutto da definire), hanno l’intenzione di cambiare lo status quo: smettendo di penalizzare i tax-payers, cioè chi paga le tasse, i produttori, gli imprenditori, i lavoratori dipendenti del privato, e iniziando a penalizzare i tax-consumers, cioè chi vive sulle tasse pagate dagli altri. Abbiamo insomma dinanzi a noi uno squilibrio insano e gravissimo, che chi è strutturalmente penalizzato dal sistema non vede compensato nemmeno dai risultati della spesa pubblica, dai servizi, dalla buona amministrazione.
E qui arriva Equitalia.
Esatto, è lo snodo, il nervo scoperto di tutte queste dinamiche. Lo stato esercita la sua pressione non chiedendo più la vita dei cittadini (come accadeva in passato), ma introducendosi nelle loro proprietà in modo sempre più invasivo e violento. Per giunta, agli occhi di larga parte dei produttori non appare più legittimato a farlo. E tutto questo porta al punto essenziale: e cioè al fatto che la mancanza di senso dello stato, la scarsa efficienza dell’impiego delle risorse acquisite con il prelievo fiscale e la totale delegittimazione (anche formale) delle istituzioni statali sono fattori che si intrecciano, portando a Equitalia. Il braccio fiscale del Leviatano, diciamo così, finisce per essere al centro delle pulsioni, dello scontro, della rabbia dei cittadini. Ma sia chiaro: ogni forma di violenza nei confronti delle persone che lavorano per Equitalia è sbagliata. Si tratta di un attacco nei confronti di innocenti. È il sistema che va cambiato.
Insomma, con Equitalia lo stato ha violato il patto con i cittadini?
Sì, soprattutto perché quel patto – se mai è esistito – ora si è del tutto dissolto. Per giunta il paese a questo punto è spaccato. La società è sempre più divisa tra tax-payers (quanti danno più di quello che ricevono) e tax-consumers (quanti ricevono più di quello che danno). Da un lato crescono le pulsioni di odio contro Equitalia (e sono i tax-payers) e, dall’altro lato, in via parallela, quelle contro gli evasori (e stavolta sono i tax-consumers). Cartelle pazze e blitz a Cortina. Per certi aspetti, sebbene in forma imperfetta, questa tensione tra danneggiati e beneficiari è anche una contrapposizione geografica: Nord e Sud. Va pure aggiunto, e questo spiega molto, che tra Milano e la Calabria c’è da una distanza economica che non si ritrova in nessun’altra parte d’Europa. Niente di nuovo, quindi. Solo che ora, in mezzo a tutto ciò c’è Equitalia.
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