Anna Lombroso per il Simplicissimus
Un vero cine-vèrité, altro che commedia, altro che sceneggiatura calcolata.Non so bene quale sia il curriculum della D’Urso, ma certo merita l’iscrizione all’ordine dei giornalisti honoris causa: non era servile, era persuasa, era convinta, era innamorata, era felice di dichiarare la sua appartenenza alla “famiglia”, di rivendicare la sua fidelizzazione all’azienda, di ostentare la sua faticata ammissione ai dietro le quinte, agli arcana imperii, alle cene eleganti. E non ci vedo molte differenze con i nostri dotti e supponenti opinionisti, con i nostri smaliziati e disincantati osservatori che si lasciamo incantare dalle lacrime, dalle promesse e dalle minacce, purché provengano dalle remote stanze del potere, con quell’indole, o deformazione professionale, che induce a rivelare solo quello che i maggiorenti vogliono far vedere e sapere, con quella inclinazione, suggerita e autonomamente coltivata, a umanizzare l’autorità palesando delicate debolezze, difetti veniali, infantili vulnerabilità. Che poi è una propensione che Berlusconi risveglia, se ricordiamo una certa compassionevole indulgenza della De Gregorio in tempi di “se non ora quando” che lo sollecitava a una edificante redenzione attraverso il potere demiurgico della musica anche senza Apicella, o la maschia solidarietà di Paolo Mieli, ambedue commossi dalla solitudine del tiranno in una sorprendente tenzone su chi era più ridicolo, il despota o gli oppositori.
E lui, che dire di lui se non che aveva degli accenti di sincerità come il vecchio irriducibile Kean, istrionico e luciferino, che nella recita ritrova la sua autenticità, tanto da credere e convincersi delle sue bugie: che le ventenni lo trovino attraente, che è un uomo solo che supera il suo spleen alternando puttanelle e nipoti veri o di Mubarak, che toglierà le tasse, che è stata la mamma a sollecitarlo a scendere in politica. Ed era sincero anche nel fastidio mai dissimulato per la democrazia, per gli ostacoli, i lacci e laccioli che interpone nel processo decisionale e con moleste regole e leggi al dispiegarsi sfrontato della libera iniziativa. Si, più sincero dei tecnocrati, che pensano e agiscono allo stesso modo, recitano lo stesso mantra: metterci la faccia, fare squadra, valorizzare sinergie, fare sistema sotto lo sguardo vigile di una anonima governance, il profitto privato contro l’interesse generale. Ma che fingono sia la ricetta per salvare l’azienda Italia, il sistema Paese, noi compresi, mentre ci stanno svendendo. Si è stato più sincero, perché in una illuminazione di verità ha ammesso di essere tornato, nell’ordine, per i suoi interessi e per gli italiani. E chi in campagna elettorale avrebbe la potenza demoniaca di dichiarare solo la prima delle due opzioni?
Per quello io credo a quell’esercizio di onestà ad personam che gli ha fatto confessare che odia la politica. è vero, se la politica malgrado lui e molti altri è appunto anteporre il bene comune a quello personale, sottostare a regole e adattarsi a processi decisionali che limitano egemonie dispotiche, non stare né sopra né sotto, ma a fianco, rappresentare e rispettare opinioni diverse dalle proprie, corrispondere a aspettative apparentemente dannose per sé. E nel suo caso trovare sul cammino delle leggi confezionate su misura, presidenti comunisti (sic), funzionari scrupolosi, oppositori attenti ai suoi attentati alla costituzione, più che alla sua ostentata erotomania.
Beh pare che possa stare tranquillo, potrà ridiscendere in campo senza molti argini, senza gran boicottaggi, senza troppe asperità, che sia lui il premier o altro innegabilmente affine, Monti o il designato di uno schieramento che gli ha dato la libertà di essere e di esprimersi per quel che è, mantenendo inalterato quel conflitto di interessi che cautelava e tutelava anche le sue “rendite” politiche, elettorali o personali.
Non troverà sul suo cammino molti giornalisti che vadano oltre i suoi ridicoli vizi privati e pubblici. Soprattutto non avrà legittimi o illegittimi impedimenti nella tracotante combinazione di aziendalismo e professione politica, nella privatizzazione di tutto quello che è pubblico e nostro compresa la costituzione, perché quella che stavolta è inevitabile definire casta, sacerdotale e al servizio della teocrazia del mercato, è come lui con poche epidermiche e estetiche differenze. A meno che tutti quelli che si sentono oltraggiati dalla sua faccia imbellettata, prestata a interpretarla e rappresentarla, non spengano per sempre il televisore e accendano la piazza.
Un vero cine-vèrité, altro che commedia, altro che sceneggiatura calcolata.Non so bene quale sia il curriculum della D’Urso, ma certo merita l’iscrizione all’ordine dei giornalisti honoris causa: non era servile, era persuasa, era convinta, era innamorata, era felice di dichiarare la sua appartenenza alla “famiglia”, di rivendicare la sua fidelizzazione all’azienda, di ostentare la sua faticata ammissione ai dietro le quinte, agli arcana imperii, alle cene eleganti. E non ci vedo molte differenze con i nostri dotti e supponenti opinionisti, con i nostri smaliziati e disincantati osservatori che si lasciamo incantare dalle lacrime, dalle promesse e dalle minacce, purché provengano dalle remote stanze del potere, con quell’indole, o deformazione professionale, che induce a rivelare solo quello che i maggiorenti vogliono far vedere e sapere, con quella inclinazione, suggerita e autonomamente coltivata, a umanizzare l’autorità palesando delicate debolezze, difetti veniali, infantili vulnerabilità. Che poi è una propensione che Berlusconi risveglia, se ricordiamo una certa compassionevole indulgenza della De Gregorio in tempi di “se non ora quando” che lo sollecitava a una edificante redenzione attraverso il potere demiurgico della musica anche senza Apicella, o la maschia solidarietà di Paolo Mieli, ambedue commossi dalla solitudine del tiranno in una sorprendente tenzone su chi era più ridicolo, il despota o gli oppositori.
E lui, che dire di lui se non che aveva degli accenti di sincerità come il vecchio irriducibile Kean, istrionico e luciferino, che nella recita ritrova la sua autenticità, tanto da credere e convincersi delle sue bugie: che le ventenni lo trovino attraente, che è un uomo solo che supera il suo spleen alternando puttanelle e nipoti veri o di Mubarak, che toglierà le tasse, che è stata la mamma a sollecitarlo a scendere in politica. Ed era sincero anche nel fastidio mai dissimulato per la democrazia, per gli ostacoli, i lacci e laccioli che interpone nel processo decisionale e con moleste regole e leggi al dispiegarsi sfrontato della libera iniziativa. Si, più sincero dei tecnocrati, che pensano e agiscono allo stesso modo, recitano lo stesso mantra: metterci la faccia, fare squadra, valorizzare sinergie, fare sistema sotto lo sguardo vigile di una anonima governance, il profitto privato contro l’interesse generale. Ma che fingono sia la ricetta per salvare l’azienda Italia, il sistema Paese, noi compresi, mentre ci stanno svendendo. Si è stato più sincero, perché in una illuminazione di verità ha ammesso di essere tornato, nell’ordine, per i suoi interessi e per gli italiani. E chi in campagna elettorale avrebbe la potenza demoniaca di dichiarare solo la prima delle due opzioni?
Per quello io credo a quell’esercizio di onestà ad personam che gli ha fatto confessare che odia la politica. è vero, se la politica malgrado lui e molti altri è appunto anteporre il bene comune a quello personale, sottostare a regole e adattarsi a processi decisionali che limitano egemonie dispotiche, non stare né sopra né sotto, ma a fianco, rappresentare e rispettare opinioni diverse dalle proprie, corrispondere a aspettative apparentemente dannose per sé. E nel suo caso trovare sul cammino delle leggi confezionate su misura, presidenti comunisti (sic), funzionari scrupolosi, oppositori attenti ai suoi attentati alla costituzione, più che alla sua ostentata erotomania.
Beh pare che possa stare tranquillo, potrà ridiscendere in campo senza molti argini, senza gran boicottaggi, senza troppe asperità, che sia lui il premier o altro innegabilmente affine, Monti o il designato di uno schieramento che gli ha dato la libertà di essere e di esprimersi per quel che è, mantenendo inalterato quel conflitto di interessi che cautelava e tutelava anche le sue “rendite” politiche, elettorali o personali.
Non troverà sul suo cammino molti giornalisti che vadano oltre i suoi ridicoli vizi privati e pubblici. Soprattutto non avrà legittimi o illegittimi impedimenti nella tracotante combinazione di aziendalismo e professione politica, nella privatizzazione di tutto quello che è pubblico e nostro compresa la costituzione, perché quella che stavolta è inevitabile definire casta, sacerdotale e al servizio della teocrazia del mercato, è come lui con poche epidermiche e estetiche differenze. A meno che tutti quelli che si sentono oltraggiati dalla sua faccia imbellettata, prestata a interpretarla e rappresentarla, non spengano per sempre il televisore e accendano la piazza.
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