Perché gli Italiani sono sempre così disuniti, così implacabili fra di loro, così pronti a dilaniarsi ferocemente, mentre gli altri popoli rimangono uniti e compatti, specialmente quando si trovano a dover fronteggiare una minaccia o un pericolo provenienti dall’esterno?
Perché, risponde Leopardi, non hanno amor proprio: non rispettando i propri vicini, finiscono per abituarsi a vivere in guerra perpetua, e sia pure solo a parole, nei confronti di tutti; dunque, a subire offese incessanti; dunque, a fare poca stima egli altri e di se stessi.
E perché tutto questo? Perché, dice ancora Leopardi, non sanno cosa sia la socialità, non conoscono l’arte e il piacere della buona conversazione; non parlano mai di cose serie o importanti; e, oltre a ciò, amano parlare soprattutto male del prossimo, anche e specialmente in sua presenza: godono a insultarsi, a maltrattarsi, a infangarsi l’un l’altro: e questo li rende cinici.
Il cinismo, dunque, frutto del disincanto e dell’amarezza, è il loro tarlo segreto, la loro pena segreta, appena nascosti dietro un esile velo di allegria e di vivacità di maniera; il cinismo che toglie loro ogni aspirazione alle grandi imprese, perché chi è cinico non crede a niente e a nessuno, tanto meno agli alti ideali e alle nobili gesta.
Il cinismo toglie ogni slancio verso l’alto, ogni generoso proponimento, ogni volontà di impegnarsi in opere di lunga durata e di risultato non immediato, né appariscente; il cinismo rende subdoli, infidi, traditori; il cinismo, aggiungiamo noi, spinge ad andare in cerca di capi carismatici, di salvatori della patria, ad osannarli e idolatrarli, salvo poi stancarsene con sconcertante volubilità e riversare contro di loro tutto l’odio, il livore, la rabbia di un carattere impulsivo ed incostante, ma minato da una intima indifferenza e da un profondo egoismo.
Questa analisi potrebbe suscitare stupore, dal momento che gli Italiani hanno fama di essere un popolo gioviale, o, quanto meno, incline al buon umore; hanno anche fama di saper godere la vita e di essere particolarmente comunicativi e socievoli, specialmente i meridionali; e, a forza di sentirselo dire, hanno finito per crederci essi stessi.
In realtà, son molte le illusioni che gli Italiani nutrono su se stessi, a cominciare da quella di essere amati e benvoluti in tutto il mondo e perfino dai nemici in guerra («Italiani brava gente» è lo slogan che si sono auto-attribuiti, oltre che il titolo d un celebre film, appunto, “buonista”); ma che le cose stiano un po’ diversamente, lo dimostrano, anche recentemente, vicende come quella della mancata estradizione e, anzi, del proscioglimento del ricercato Cesare Battisti in Brasile; dell’arresto e dell’imprigionamento di due militari italiani, in missione a bordo di una nave italiana, da parte dell’India; della mancata consultazione del nostro governo da parte di quello inglese, in vista dell’azione militare delle forze speciali britanniche che, in Nigeria, è costata la vita, oltre che a un cittadino inglese, a un nostro connazionale.
Si dirà che farsi delle illusioni su se stessi è il contrario del cinismo, visto che essere cinici significa non credere a niente; ma questo è solo un lato della medaglia: perché chi non crede a niente finisce per credere a qualsiasi cosa; e a nulla ci si abbandona più volentieri che ad una visione gratificante di se stessi, specialmente se è quella che si pensa gli altri abbiano di noi.
In realtà, il cinismo è una forma di disperazione: è la tipica difesa di chi non vuole più soffrire, non vuole più rimanere deluso: dietro ogni cinico, come dietro ogni misantropo, c’è un animo sensibile, che si è corazzato contro la vita e ha fatto il fermo proponimento con se stesso di non abbandonarsi mai più, di non fidarsi di nessuno.
Però, siccome - di fatto - è impossibile vivere sempre così, se non per il singolo, certo per i popoli, ecco che di tanto in tanto il cinismo fa luogo al suo esatto contrario: la fede cieca, assoluta, improvvisa e irrazionale in qualcuno, nel quale vengono proiettate tutte le virtù, tutti i pregi, tutte le sicurezze che non si possiedono.
Sono amori divoranti, brutali, quasi animaleschi, e finiscono immancabilmente con la delusione, il ripudio, il disprezzo e l’odio più implacabile nei confronti dell’oggetto amato: la nostra storia nazionale è piena di simili colpi di fulmine, tanto repentini quanto impossibili; ed ogni volta l’antica rassegnazione, l’antico egoismo, l’antico cinismo, appunto, riprendono il sopravvento e il popolo italiano ricade nella sua millenaria abulia e nel suo eterno fatalismo.
All’origine di tutto c’è la mancanza di una vera vita sociale: osservazione molto penetrante sul piano psicologico, perché nasce da una capacità di vedere oltre le apparenze della buona tavola, di una osteria affollata, di una strada piena di vicini di casa intenti a chiacchierare.
La vera vita sociale, per Leopardi, è l’attitudine a trovarsi insieme, ciascuno nell’ambito della propria classe, per parlare non solo di cose sciocche e indifferenti, ma anche di cose serie; e nel saperlo fare senza offendere, senza svalutare l’altro, senza ridergli in faccia per i suoi difetti, ma cercando di valorizzare i suoi lati positivi e, comunque, di tenere la conversazione nell’ambito di ciò che è costruttivo, che pone valori, che manifesta simpatie e solidarietà, e non in quello nel basso pettegolezzo di tutti contro tutti, che mina, corrode e disgrega la stima che ciascuno ha degli altri e, inevitabilmente, anche di se stesso.
Scrive dunque, Leopardi, nel «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani»:
«…Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano.
Niuna vince né eguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua natura.
Se gli stranieri non conoscono bene il modo di trattare degl’italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli l’occasione d’esserne sovente e facilmente testimonio, perocché d’altronde noi siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La “raillerie” e il “persifflage”, cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Questo è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. - Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più insopportabile, e il più alieno dal modo di conversare. Gl’italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di “se pousser à bout” colle parole, più che niun’altra nazione. Il “persifflgae” degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di “polissonnerie”, ma con tutto questo io compiangerei quello stranero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di “raillerie”. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto. Gl’italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fono al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso l’altrui, offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.
Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo, e da tutte le sovra espresse condizioni e maniere del nostro modo di trattarci scambievolmente. Non rispettando gli altri, non si può esser rispettato. Gi stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere rispettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendosi, in vece d’essere risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura di on soffrire altrettanto e procurarsi maggiormente gli altri, incapace di difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle difese. E basta che uno si mostra sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e annichilarlo. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso, e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. La quale indifferenza chi non sa come noccia ai costumi? È certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri di disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senza amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni.
Di più quanto v’ha di conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti pubblici), piuttosto che presso i privati, appo i quali propriamente non si conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia, essendo sconosciute in Italia e vere conversazioni private che s’usano altrove); quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose d niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per altro uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità de’ costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia. L’una e l’altra le maggiori pesti di questo secolo. Così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a ‘ suoi simili co’ fatti. Nel che è riposto l’esizio e l’infelicità sociale e nazionale. E questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Ed anche all’amore e spirito nazionale è visibile quanto debbano nuocere tali modi di conversare per cui trattiamo e ci avvezziamo a trattare e considerar gli altri sì diversamente che come fratelli, ed acquistiamo o intratteniamo ed alimentiamo uno spirito ostile verso i più prossimi. Laddove presso l’altre nazioni la società e la conversazione, rispettandovisi ed anche pascendovisi per parte di tutti l’amor proprio di ciascheduno, è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale; in Italia per la contraria cagione, la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini, massime contro i più vicini, che più importa di amare e beneficare o risparmiare; tanto che al paragone sarebbe assai meglio che ella non vi fosse affatto, e che gl’italiani non conversassero mai tra loro se non nel domestico, e per li soli bisogni, come alcune nazioni poco polite e molto bisognose, o molto occupate e industriose. Certo la società che avvi in Italia è tutta di danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno.»
Leopardi svolgeva queste osservazioni quasi due secoli fa; ma non c’è dubbio che la situazione, frattempo, si è ulteriormente sviluppata nella direzione da lui indicata: la vita sociale è divenuta quasi inesistente, sotto i colpi dell’automobile, della televisione, del computer e del telefonino cellulare; quel che ancora restava di essa, nell’ambito della famiglia e perfino nell’ambito del bar, si è definitivamente dissolto.
Questo, certamente, è un fenomeno mondiale; ma in una società, come quella italiana, dove il fenomeno era già evidente per tutt’altre cause che non il progresso della tecnologia, l’irruzione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa ha letteralmente dato il colpo di grazia a quel poco di socialità che ancora sopravviveva, accentuando l’egoismo, la misantropia a stento dissimulata, il cinismo di fondo dell’animo italiano.
Andare in discoteca, oppure recarsi ad assistere alla partita di calcio, non hanno nulla a che vedere con la socialità; così come non hanno niente a che vedere con essa il frequentare una palestra, o l’iscriversi ad un corso di ballo latino, o a un corso di ginnastica yoga, o a un corso di meditazione (pseudo) trascendentale.
La vera socialità non si misura con il numero delle persone che ciascuno frequenta, ma con la qualità, la serietà e il livello di coinvolgimento emotivo delle proprie frequentazioni; non si misura nemmeno in base alla quantità delle parole scambiate o delle ore trascorse in compagnia altrui, ma dal fatto che l’anima si trovi in uno stato di piacevole apertura, di condivisione del proprio mondo affettivo, di partecipazione alla vita dell’altro.
Certo, in una relazionalità siffatta c’è il pericolo dell’affettazione, della insincerità, dell’ipocrisia; c’è il pericolo che il rispetto per le idee degli altri sia simulato, e che nasca unicamente dal desiderio di essere del pari rispettati da parte degli altri; tuttavia, almeno, non si verifica l’opposto e più grave inconveniente, quello di spargere incessantemente il sale sulle piaghe altrui, di esacerbare perennemente gli animi, di soffiare sull’invidia, sulla gelosia e sul rancore, che già troppo spesso rendono difficili ed estremamente faticosi i rapporti umani.
Quando due o più persone si trovano insieme quasi solo per parlare male di qualcuno o di qualcosa, sistematicamente, ostinatamente, pervicacemente; quando non sanno trovare altro argomento di conversazione che lo scherzo offensivo, la battuta oscena, l’insinuazione velenosa: quella non è una manifestazione di socialità, ma una quotidiana coltivazione dei peggiori istinti umani e dei comportamenti più distruttivi e antisociali.
E quando ciò avviene, se pure avviene, a margine di una partita di videopoker in un bar rumoroso e anonimo, o di una pista da ballo all’interno di una discoteca echeggiante di vibrazioni acustiche ad altissima frequenza, oppure ancora fra una corsa e l’altra attraverso i corridoi di un ipermercato, spingendo verso la cassa dei carrelli carichi di merce, allora agli effetti deleterî della maldicenza e della volgarità si sommano quelli, non meno esiziali, della barbarie neotecnologica e del più sfrenato individualismo consumista.
Allora il cinismo derivante dalla cattiva socialità si incontra con quello dovuto alla totale assenza di socialità e quello che ne scaturisce è una comunità che non è una vera comunità, ossia un gruppo umano caratterizzato dalla consapevolezza del bisogno che ciascuno ha di tutti gli altri, ma una foresta di belve sempre pronte a sbranarsi o, in ogni caso, del tutto indifferenti l’una al destino dell’altra, come se solo il caso le avesse riunite in un medesimo luogo e come se soltanto l’odio e la malignità le tenessero insieme. Come meravigliarsi, poi, se quella comunità si trova ad essere come un vaso di coccio in mezzo a dei vasi di ferro?
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