D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


lunedì 8 ottobre 2012

Quando il camorrista uccide per nulla di ROBERTO SAVIANO



Nel 2002 Antonio Petito, 20 anni, fu condannato a morte dai clan. Ora si scopre perché: aveva "offeso" il rampollo 13enne dei Casalesi. E i casi di questo genere sono tanti, troppi: le stragi dei futili motivi


In certi territori si muore per nulla. Un rimprovero, un posto auto, un diverbio stradale, uno scherzo di carnevale. Gianluca Bidognetti, detto Nanà, non è solo un qualunque ragazzo di Casal di Principe. Nanà Bidognetti è l'erede al trono: figlio di Cicciotto 'e Mezzanotte e della sua seconda moglie Anna Carrino. Se Nanà ti attraversa la strada, è l'erede al trono che ti sta passando davanti e chiunque si trovi nei paraggi, al volante di un'auto, in motorino o a piedi, lo deve sapere. Era il 2002 quando Nanà, allora aveva 13 anni, attraversa la strada e Antonio Petito, 20 anni, falegname, anche lui di Casal di Principe, frena maldestramente rischiando di investirlo. I due ragazzi litigano: ognuno dà la colpa all'altro. Quando Nanà torna a casa, non esita a riferire tutto a sua madre. Le teste camorristiche sono teste paranoidi: per loro il caso non esiste. Fatti e parole che per qualsiasi altra persona non significherebbero nulla, nella grammatica criminale assumono sempre un senso. Nanà era stato insultato davanti a tutti.

Quindi nel paese poteva circolare la voce che era possibile mancare di rispetto a un Bidognetti, impunemente. Anna Carrino interpreta l'accaduto come un chiaro affronto, in un momento peraltro delicato per la famiglia, e decide di convocare la dirigenza del clan. La donna ha una personalità molto complessa, attualmente collabora con la giustizia e racconta spesso con sofferenza tutto quello che negli anni ha visto, eppure di quella ferocia è stata parte attiva. È lei, secondo l'inchiesta della Dda di Napoli, a condannare a morte Antonio Petito. Si è scoperto solo adesso dopo che i carabinieri del nucleo investigativo di Caserta hanno eseguito tre ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di esponenti del clan dei Casalesi. Quando Anna li convoca, non tutti nel clan erano d'accordo, non tutti credevano che quel ragazzo dovesse morire: all'inizio Luigi Guida, detto o' drink, braccio destro di Francesco Bidognetti, pareva essere contrario: magari avrebbero potuto picchiarlo, fargli "una paliata", ma ammazzarlo era esagerato... E invece Anna Carrino insiste e ottiene la sentenza. E così un commando del clan dei casalesi organizzato proprio da o' drink raggiunge il ragazzo mentre stava andando al lavoro, e lo ammazza con 12 colpi di arma da fuoco.

Il boss Maurizio Prestieri, uno dei massimi dirigenti della camorra di Secondigliano, ora collaboratore di giustizia, ha spiegato il meccanismo che regola il potere mafioso e questo genere di reazioni che a noi sembrano esagerate con la logica del Vipl, cioè della Very Important Person Local. Nella tua zona devi essere molto noto, temuto e ossequiato da tutti. Al contrario, lontano, altrove, dove gestisci affari che non devono destare attenzione, devi essere sconosciuto. Se Bidognetti fosse stato persino investito, e non solo spaventato, lontano dal suo paese, magari non sarebbe successo nulla. Invece la gente del tuo territorio deve essere terrorizzata, psicologicamente assoggettata. Non è un caso che per i loro paesi d'origine non spendano un euro. Non una strada asfaltata, non una scuola ristrutturata, non un giardinetto per i bambini. Nulla, a meno che non significhi vincere appalti per la famiglia. Ma non elargiscono mai danaro. Eppure in questi territori ci vivono. Il consenso lo pretendono con il terrore e con la fame. La ragione? Molto banalmente, se si aumenta il benessere di un territorio, chi sarà più disposto a farsi arruolare per mille euro al mese? È la logica feudale. Prestieri racconta di quando arrivava con la macchina al rione Monterosa: le persone si catapultavano in strada a togliere le proprie auto per dare a lui la possibilità di parcheggiare. Lui doveva semplicemente farsi riconoscere e tutti gli cedevano il posto.

E la storia del clan Bidognetti è una storia piena di esecuzioni assurde: anche una diagnosi forse sbagliata può provocare una condanna a morte, come accadeva nelle corti dei sovrani assoluti
raccontate nelle Mille e una notte. Il clan ha il suo fondatore in carcere da sempre, un capo che vacilla ha bisogno di imporre regole sanguinarie al territorio. Ha bisogno di dire chiaramente: "Qui, nonostante tutto, comandiamo noi". Francesco Bidognetti, nell'ottobre del '93 non ci pensò due volte prima di far ammazzare Gennaro Falco, il medico ritenuto "colpevole" di non aver diagnosticato per tempo un cancro alla sua prima moglie. Falco fu ucciso nel suo ambulatorio mentre stava scrivendo una ricetta, e nella sparatoria rimase ferita anche una sua paziente.
Prima ancora toccò a un ragazzo africano, che nel '91 fu ucciso, decapitato e gettato nel Volturno perché probabilmente aveva vinto al Totocalcio e non aveva voluto pagare la percentuale alla camorra. Per questo gli tagliarono la testa e lo buttarono nel fiume. "Vivi nel nostro territorio, vinci nel nostro territorio, la tua vita e le tue vincite ci appartengono".

Il messaggio che ogni omicidio veicola costruisce regole, prassi di vita. Deve dare la cifra esatta di chi sia a comandare in quel territorio e di cosa significhi non accettare l'autorità. Era il 24 luglio del 1991 e queste furono le ultime parole di Alberto Varone, commerciante di Sessa Aurunca, sussurrate a sua moglie: "Hai visto? Mario ce l'ha fatta ". Poco dopo sarebbe morto. A condannarlo era stato il boss Mario Esposito che da tempo voleva impadronirsi dell'attività di Alberto Varone, e per questo mandava nel negozio una nipote del commerciante imparentata con il clan. All'ennesima visita della ragazza, che si presentava sempre a nome degli Esposito, Alberto la cacciò via, accusandola di aver infangato il nome della famiglia sposando un Esposito. Questo segnò la sua condanna a morte. Quel rimprovero era bastato per farlo ammazzare.

Le donne sono spessissimo prese dai clan a pretesto per feroci liti che sfociano in tragedie. Nella primavera del 2005 il figlio più piccolo di Sandokan era andato a una festa a Parete, territorio dei Bidognetti, e qui aveva iniziato  -  secondo le indagini  -  a corteggiare una ragazza, nonostante questa fosse già accompagnata. Il rampollo degli Schiavone era senza la scorta di camorra che in genere segue i delfini dei boss e credeva che il solo fatto di essere figlio di Sandokan lo avrebbe reso immune. Non andò così. Un gruppetto di persone lo riempì di schiaffi, di pugni e calci: dovette correre in ospedale. Il giorno dopo una quindicina di persone, in moto e in macchina, si presentarono al bar Penelope, dove si ritrovavano solitamente i ragazzi che avevano picchiato il rampollo. Entrarono con mazze da baseball e sfasciarono ogni cosa, pestarono a sangue chiunque si trovasse dentro. Il commando poi si riversò in strada e iniziò a sparare tra la gente colpendo all'addome un passante, Carlo Bocchetti. Distrussero tutto e dissero solo questo: "Non toccate quelli di Casale".

Qualcosa di simile era accaduto sei anni prima e precisamente il 21 marzo del '99 a Santa Maria Capua Vetere. Nella stessa discoteca, il Disco Club, c'erano Carlo Amato, figlio di Salvatore boss di Marcianise, e Walter Schiavone, figlio di Sandokan. Carlo Amato viene ammazzato: e anche se le dinamiche dell'omicidio non sono state ancora del tutto chiarite, una delle ipotesi è che Amato sia stato punito per aver difeso una ragazza dalle molestie di un gruppo di giovani, capeggiati proprio da Walter. Lo sguardo è territorio. Per uno sguardo si ammazza. Così accade nel 2004 a Francesco Estatico, 19 anni. È sera e con un amico va a Mergellina, sul mare, davanti a uno chalet, luogo di ritrovo nel fine settimana di centinaia di ragazzi. Va a prendere un frullato con il motorino nuovo. Quando Francesco arriva una ragazza lo nota, gli sorride e si avvicina a lui. Francesco è un bel ragazzo e anche questo può essere elemento di fastidio. Un gruppo di ragazzi, vantandosi di essere affiliati ad un clan, si avvicinano a Francesco e lo accoltellano a morte, sotto gli occhi increduli dell'amico e davanti a una folla indifferente.

Anche Augusto La Torre, boss di Mondragone, manteneva il suo potere sul terrore. Nel 1990 condannò a morte il vicesindaco Antonio Nugnes per problemi di spartizioni di quote e poteri. Tredici anni dopo, Augusto e i suoi fedelissimi indicarono ai carabinieri un pozzo coperto da quintali di terra dove poter trovare i resti di Nugnes. Accanto c'era anche il corpo di Vincenzo Boccolato, condannato a morte perché in una lettera inviata dal carcere a un suo amico aveva offeso Augusto. Il boss l'aveva trovata per caso, mentre gironzolava per il soggiorno di un suo affiliato, scartabellando tra fogli aveva riconosciuto il suo nome e, incuriosito, si era messo a leggere le critiche alla gestione del clan che Boccolato gli faceva. Così lo portarono dinanzi al pozzo e gli dissero "vai a giocare a briscola con Nugnes". Luigi Pellegrino, conosciuto da tutti come Gigiotto, era invece uno di quelli a cui piaceva spettegolare su tutto ciò che riguardava i potenti della sua città. Gigiotto spettegolava sulla moglie del boss Augusto La Torre, raccontava in giro di averla vista incontrarsi con uno degli uomini più fidati del clan. Bastò per condannarlo a morte: fu ucciso in un bar mentre tentava di nascondersi dietro al bancone. Fu colpito alla testa davanti a decine di persone. Più il motivo di una condanna a morte è futile, più un boss dimostra il suo potere, l'arbitrarietà della decisione.

Sembra inconcepibile che si possa rischiare un ergastolo per uno sguardo, per una voce, per un'illazione, per una frenata brusca, per un parcheggio fatto male o nel posto sbagliato. Tutto questo potrebbe sembrare, a un'analisi superficiale, fragilità. Quasi non ci si spiega come un'organizzazione possa investire centinaia di migliaia di euro in difese legali per processi inutili. Eppure è proprio qui, in questi futili motivi, che risiede il fondamento del potere dei clan. Si ammazza per nulla e questo ha un solo significato, è un terribile ammonimento: "La vostra vita è nelle nostre mani, quando e come vogliamo". I futili motivi sono alla base anche di importanti faide. Come la faida di San Luca, una delle più feroci, che ha inizio nel febbraio del '91 per uova e farina tirate a Carnevale. Dei ragazzini delle famiglie Strangio e Nirta si ritrovano
fuori dal circolo Arci del paese gestito da Domenico Pelle, della cosca nemica dei Pelle-Vottari. Il paese è minuscolo ed è naturale che si viva tutti nello stesso spazio, amici e nemici. I ragazzini tirano uova e farina davanti al circolo e le persone provocate rispondono soltanto a parole. Il giorno successivo la scena si ripete ma questa volta i ragazzini ricevono schiaffi e calci. A questo punto devono intervenire gli adulti della famiglia, ma mentre stanno andando al circolo a chiedere ragione di ciò che è stato fatto ai loro ragazzi, si imbattono in un affiliato ai Pelle che inizia a sparare ammazzando due uomini delle famiglie Strangio e Nirta. Da lì ha inizio una faida eterna
che dal '91 ha portato, nel 2007, alla strage di Duisburg. Tutto per uova e farina.

In terra di camorra, una faida analoga, la cosiddetta "faida della minigonna", iniziò nel '97, quando una ragazza vicina al clan Licciardi venne corteggiata da un giovane affiliato ai Prestieri. Il corteggiatore, Gennaro Romano, viene pestato, ma riesce a chiamare rinforzi che si vendicano spaventando un amico di Vincenzo Esposito, detto 'o principino, nipote del capo, Gennaro Licciardi, la scimmia. Il principino vuole vendicare l'offesa e va in moto assieme al suo guardaspalle a sparare sulle palazzine del boss del Rione Monterosa. Gli uomini di Prestieri, che non avevano riconosciuto il ragazzo perché indossava il casco, rispondono al fuoco e uccidono il principino. È qui che accade una delle cose più incredibili che siano avvenute in terra di camorra, le indagini non confermano e parlano di leggenda, ma c'è chi è pronto a giurare che sulla porta della chiesa della Resurrezione a Secondigliano sia stata affissa dai Licciardi una lista nera detta proprio "lista della Resurrezione". Era un consiglio che si dava ai Prestieri e alle famiglie secondiglianesi: consegnateci queste persone altrimenti noi ammazziamo i consanguinei. Vera o leggendaria che sia questa storia, è certo che in molti furono consegnati pur di evitare una strage. Decine furono i morti. La faida della minigonna partita nel '97 è terminata nel 2006.

È così che vanno le cose nelle terre sotto il dominio delle organizzazioni criminali: si sta ben attenti a non pronunciare mai i nomi dei boss invano: questo basterebbe a farli innervosire. Si è attenti a salutarli o, in caso di guerra, a non farsi trovare per strada sul loro percorso, perché il saluto o il non saluto ha sempre un significato. Si è attenti a non far pagare loro mai il conto al ristorante o in un negozio. Si accetta un pagamento solo dopo che per due volte i capi, e solo i capi, hanno fatto espressamente capire di volerlo fare. È un terrore che porta a non poter dire mai di no. Perché nella terra dei clan i cittadini sono sudditi e il boss è un monarca dal potere assoluto. Perché si muore per niente: è questo uno dei pilastri del dominio mafioso.
(08 ottobre 2012)


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