D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


mercoledì 30 ottobre 2013

La Pedagogia del Gioco alla Guerra

DI VALERIO PASSERI

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Che a partire dalla prima guerra mondiale ad oggi, le guerre che riguardano diverse nazioni nel mondo non si siano mai fermate e che continuino a produrre milioni di morti è un dato di fatto. Produrre è proprio il verbo adatto all’esigenza, la morte è seminata in maniera perfetta, calcolata ed anonima come in una spaventosa catena di montaggio. Il 900 ha segnato la fine del mito dell’eroe medioevale che grazie a intelletto e prestanza fisica salvava la donzella dal terribile nemico. Il ritratto tipico del combattente che semina e riceve morte è ora quello sempre uguale ed inespressivo delsoldatino di plastica che si da ai bambini per giocare alla guerra.
Giocare alla guerraqualcosa che distrugge milioni di vite, può essere trasfigurata in un gioco? E ancora, cosa c’è di eroico nel fare la guerra, peggio se guerra di attacco, improntata al mero accaparramento di risorse economiche? Eppure i bambini giocano alla guerra con ricostruzioni sempre maggiormente fedeli, grazie a videogiochi e ai nuovissimi poligoni di tiro virtuale nei quali, imbracciando un’arma identica alla realtà, si uccidono tutti gli “sporchi nemici”. Eppure i nostri soldati sono eroi, e gli altri, tutti gli altri, - anche se i nostri la guerra la fanno nel loro paese - se non sono alleati sono degli assassini. A chi obietta la definizione di eroe subito si “sbattono” davanti agli occhi tutte le bare con su i tricolori dei soldati “morti per noi”. Il problema non è del povero soldato che perde la sua giovane vita in un conflitto che non lo riguarda, ma di chi ha disposto a quel soldato di rischiare la propria vita e di terminarne delle altre.Costoro fanno delle belle facce addolorate durante i funerali di stato, per poi – con sguardo solenne – dire che, nonostante le perdite, la nostra – nostra? – missione continua. Muoiono costantemente persone da una parte e dell’altra, ma non si parla della guerra se non come fosse una partita a risico: “chi sta vincendo?”. Ecco la fonte del problema, a partire dalla prima guerra mondiale per limitare il dissenso dell’opinione pubblica per una guerra di cui non si capivano le motivazioni e che diventava logorante per tutti, la propaganda ha inventato la “pedagogia del gioco alla guerra”. E così è continuata fino ai giorni nostri con sempre maggiore coerenza e precisione. Può sembrare assurdo che lasciar giocare i propri figli con soldatini, pistole giocattolo o videogame possa portare conseguenze. Ma tutto questo è atto a rendere la guerra qualcosa di universalmente “normale”. Per chi si trova di fronte al teleschermo e vede ed ode della fine di centinaia di migliaia di vite, tutto sembra distante ed irreale. Se questo non lo tocca perché mai dovrebbe lottare, impegnarsi o spendere parole per porre fine a quello che per lui è solo un gioco?
Bisogna insegnare che alla guerra non si gioca, perché essa è reale e terribile e bisogna insegnare che non è qualcosa di irreversibilmente intrinseca nella storia del mondo, perché se non c’è nessuno disposto ad uccidere, le guerre non si combattono da sole, tanto meno le combattono le poche decine di uomini che le dispongono.

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