Era il 3 aprile 2010 quando vi parlavo dell’apocalisse della plastica. Intere isole di rifiuti che emergevano dagli oceani, in special modo quello Pacifico, come una grottesca orogenesi che ridisegnava il mondo a nostra immagine e somiglianza, segnando tutta la distanza che intercorre tra ciò che ancora sopravvive nelle pellicole dei film e ciò che davvero è rimasto di quella natura che viene tanto celebrata nei documentari e, tra poco, solo nei libri di storia.
Ora non c’è nient’altro. Il Pacifico è morto. Attraversarlo è come camminare a piedi nudi su un’immensa discarica. Lo ha fatto un marinaio, Ivan Macfadyen, ripetendo le rotte sulle quali una volta proliferavano delfini, squali, pesci, tartarughe, uccelli marini… Questa volta niente: solo una sconfinata distesa di rifiuti. Un mare di merda. Rimuoverla costerebbe di più, dal punto di vista dell’ambiente, che lasciarla lì: brucerremmo troppo carburante. Siamo condannati.
Come gli albatros di una remota isola a centinaia di chilometri di distanza dalla nostra “civiltà”. Il video in cima al post mostra come muoiono, a decine di migliaia: con lo stomaco pieno di tappi di bottigliette di plastica. Senza nessuna consapevolezza da parte nostra, ormai avviati su un triste declivio la cui destinazione finale èl’estinzione: il vero spread tra la vita e la morte, l’unica cosa reale in mezzo a questo caleidoscopico mondo di frattali nel quale danziamo, acrobati del nulla, ammaliati da forme e colori virtuali che illuminano un telo elettronico, mentre la lampadina del proiettore si sta esaurendo, e prima o poi resteremo inesorabilmente al buio.
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