D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


giovedì 4 aprile 2013

ITALIA: BOMBE CHIMICHE E RADIOATTIVE IN MARE - Gianni Lannes





Mare Adriatico

Il dramma è di cogente ma elusa attualità dalle autorità governative italiane! Ne avevo scritto l'ultima volta su questo diario internautico nell'estate dell'anno scorso. Ora ripubblico integralmente una mia inchiesta a 360 gradi, già pubblicata il 16 marzo 2007, dal settimanale Left.

di Gianni Lannes

C’È UNA BOMBA IN MEZZO AL MAR. ANZI, NELL’ADRIATICO CE NE SONO MIGLIAIA. E I PESCATORI CI SALTANO SOPRA


 
 
La Nato aveva parlato di sei siti in cui gli aerei di ritorno dalle operazioni in Kosovo avrebbero scaricato gli ordigni in eccedenza. In realtà sono 24, dalla laguna di Venezia fino alla Puglia. Ci sono bombe a grappolo, proiettili all’uranio impoverito e perfino missili.

 
Mare Adriatico - foto Gianni Lannes (tutti i diritti riservati)

Stanno in fondo al mare e nessuno, a livello internazionale, se ne occupa. Poi, ogni tanto, ordigni d’ogni genere fanno capolino sulla battigia, da Grado a Gallipoli: proiettili all’uranio impoverito, cluster bomb, missili Tomahawk, granate al fosforo, bombe a guida laser, e addirittura siluri. La Marina militare italiana aveva annunciato la bonifica, promessa da vari governi che si sono succeduti, mentre in Parlamento centinaia di interrogazioni attendono risposte esaurienti.
 
Ma nel frattempo, chi sul mare ci lavora, spesso ci rimette la vita. Nel silenzio dei media e della politica. L’ultimo di una lunga serie di incidenti legati all’esplosione di ordigni bellici in Adriatico è accaduto lo scorso 26 ottobre. Il peschereccio Rita Evelin, nuovo di zecca, affonda con mare calma piatta dinanzi alla costa marchigiana e tre pescatori (due italiani Francesco Annibali e Luigi Lucchetti e il tunisino Ounis Gasmi) inghiottiti dal mare Adriatico. Il fascicolo di questo incidente è finito in una cartellina sottile, quasi come un foglio di giornale, già impolverata come una noiosa pratica amministrativa. È tutto lì il dossier su una tragedia dimenticata troppo rapidamente, in comunicati, dispacci e relazioni istruttorie. Documenti riservati e conservati negli archivi della Capitaneria portuale di San Benedetto del Tronto in provincia di Ascoli Piceno. Ripercorriamo questa vicenda: alle 5,30 del mattino il natante è colato improvvisamente a picco dinanzi a Porto San Giorgio, adagiandosi su un fondale di 80 metri (43 gradi e 12 primi di latitudine nord, 14 gradi di longitudine est). Le scarne informazioni relative all’affondamento dell’imbarcazione sono state fornite dall’unico sopravvissuto, il comandante Nicola Guidi (41 anni), sotto choc ma non in pericolo di vita: «Ho sentito soltanto un forte botto e subito dopo la Rita Evelin ha cominciato a imbarcare acqua e ad affondare in pochi minuti». Fine delle rivelazioni: il marittimo non parla. E neppure i suoi colleghi che lo hanno tratto casualmente in salvo dopo alcune ore, a bordo del peschereccio pugliese Luna Nuova di Bisceglie. 

La consegna delle autorità istituzionali e marittime è semplice: “Bocche cucite”. Le cause? «Ufficialmente ancora imprecisate». L’inchiesta staziona a Fermo: è nelle mani del giudice Piero Baschieri. Sarà soltanto un caso, ma l’area del cosiddetto “incidente” coincide con una delle 24 ampie zone di affondamento degli ordigni - e non sei come dichiarato dalla Nato - abbandonati da velivoli dell’Alleanza atlantica nel mare Adriatico di ritorno dai bombardamenti in Kosovo nel 1999. E prima ancora in Bosnia Herzegovina nel 1994-‘95.

Ad attestare la presenza di ordigni, all’uranio impoverito e non, sono le mappe e le coordinate della Nato, nonché i dati secretati dalla nostra Marina militare (di cui left è ora in possesso). Se circa un terzo dei siti di scarico sono concentrati in Puglia, a Nord sono il Golfo di Trieste e la laguna di Venezia i principali bersagli di affondamento per i velivoli Nato a capacità di bombardamento nucleare, compresi i Tornado dell’Aeronautica italiana, stanziati ad Aviano e Ghedi. In quell’area marittima si movimentano ogni anno ben 30 milioni di tonnellate di greggio. Ma è soprattutto nel basso Adriatico che si registra la maggiore concentrazione di ordigni bellici. Soltanto a Molfetta, in un raggio di 500 metri dalla riva di Torre Gavettone (100 metri dalle abitazioni), «i sub della Marina militare ne hanno catalogati 110.000. Mentre nel porto e nelle sue immediate adiacenze ce ne sono un numero imprecisato», rivelano un ufficiale e un sottufficiale. Il 22 settembre 2004, in un’interrogazione parlamentare del senatore Ds Franco Danieli al presidente del Consiglio dei ministri, si menziona la presenza in Adriatico oltre che di «residuati chimici della seconda guerra mondiale di produzione Usa», proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925, soprattutto di «bombe a grappolo del tipo blu 27 e proiettili all’uranio impoverito». Il premier Silvio Berlusconi non ha mai risposto né, tantomeno, il suo successore Romano Prodi si è sentito in obbligo di fornire una minima spiegazione. 

Il senatore Danieli (attualmente fa riferimento anche al fatto che «ancora oggi, in alcune zone, oltre le 12 miglia marine (ad esempio al largo di Fasano in Puglia e Cupra al largo di Cupramarittima nelle Marche) vengono rilasciate in mare bombe o serbatoi ausiliari da aerei militari italiani in emergenza ». 

Al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Giampalo Di Paola e al capo di Stato Maggiore della Marina militare, Paolo La Rosa, Left ha chiesto spiegazioni, ma i due ammiragli, attraverso le rispettive segreterie hanno preferito non rispondere. Il 25 maggio 1999, la poco nota deliberazione 239 del Consiglio regionale delle Marche prendeva atto che «in questo ultimo periodo è continuato lo sganciamento di bombe da parte di aerei Nato nell’Adriatico, anche a ridosso della costa marchigiana». Già allora l’assise regionale considerava «il grave danno arrecato all’ecosistema marino» e paventava «il pericolo di esplosioni a danno dei lavoratori della pesca». Altre singolarità. Tra i primi al mondo a dare la notizia della tragedia del Rita Evelin, il 26 ottobre 2006, è stata la Pravda online, una nuova agenzia di stampa russa («Affonda peschereccio nell’Adriatico: 3 dispersi»).

Quello che sorprende è l’insolito interessamento manifestato dal ministro degli Esteri. Massimo D’Alema ha fatto pervenire al sindaco Giovanni Gaspari un telegramma di solidarietà alle famiglie dei marinai deceduti, alla marineria e alla città di San Benedetto. Che ragione c’era? Istituzionalmente nessuna. Tant’è che all’affondamento tra le Marche e l’Abruzzo di un altro peschereccio, il Vito Padre il 30 maggio (due vittime), il titolare della Farnesina non si è scomodato. E così il 17 dicembre 2006, quando i flutti hanno sommerso il Maria Cristina di Silvi Marina (Pescara) provocando la morte di un lavoratore del mare. La comunità dei pescatori locali ha rispedito al mittente il telegramma: «Non sappiamo che farcene di questa solidarietà a parole. Piuttosto il governo bonifichi finalmente il mare in cui siamo nati e lavoriamo». Due fatti sono attualmente certi. Primo: le salme dei tre lupi di mare potevano essere recuperate immediatamente, ma le autorità hanno preferito ripescarle con tutto comodo e dopo aver ispezionato il natante, ben 19 giorni più tardi, soltanto a seguito della dura protesta della marineria locale col blocco della linea ferroviaria adriatica, nonché dei familiari delle vittime. Eppure la magistratura aveva disposto il recupero dei pescatori il 31 ottobre. I subacquei siciliani della società Under Hundred erano pronti a portare in superficie i corpi dei marittimi, ma le autorità militari non hanno gradito occhi indiscreti. Meglio tenere alla larga i civili. Secondo: la Rita Evelyn non sarà tirata in secco, precludendo la possibilità di accertare le cause dell’affondamento. 

Allo Stato maggiore della Difesa avranno pensato, come è già avvenuto, che è meglio non far sapere nulla all’opinione pubblica a proposito dei rischi e dei pericoli che si annidano in questo mare disseminato di bombe. Infatti, l’Adriatico, incurante delle ragioni di Stato e agli accordi segreti dei nostri militari con il governo degliStati Uniti d’America, seguita imperterrito a tirare fuori proiettili all’uranio impoverito abbandonati dagli aerei Usa A-10, soprattutto a Sud (erano di stanza a Gioia del Colle). 

Ma non solo: emergono saltuariamente, senza però raggiungere la ribalta della cronaca nazionale, anche bombe a grappolo (cluster) e al fosforo di fabbricazione Usa. «Quei cosi li peschiamo un giorno sì e l’altro pure - rivela Nicola, che chiede l’anonimato perché non vuole problemi -. Se avvertiamo le Capitanerie passiamo un guaio. Meglio ributtarli in acqua». Gli ordigni sonnecchiano sul fondo marino. In situazioni d’emergenza i bombardieri alleati avrebbero dovuto gettarle per sicurezza ad almeno 70 miglia dalla costa, nelle cosiddette jettison areas. Invece un ordigno con la scritta “U.S. 97” è affiorato recentemente nella laguna di Marano, ad appena 6 miglia dalle foci del Tagliamento, fra Grado e Lignano Sabbiadoro. «E lì il fondale non supera i 17 metri», assicura Giuseppe che sul suo viceministro agli Esteri) con dovizia di peschereccio s’è trovato la bomba di 80 centimetri impigliata nelle reti. Sono imprevedibili: possono essere ovunque, grazie al gioco delle correnti. 

Basta allungare lo sguardo, oltre il manto dell’acqua, per distinguere i letali cilindri metallici. «Bombe sono», ripete Antonio di Pescara, volto segnato dal sole e dal freddo come quello degli altri colleghi. Alcuni ufficiali della Marina confermano le dichiarazioni dei pescatori, che da Trieste a Otranto, ormai convivono con questi indesiderati ospiti e l’intenso traffico di petroliere. Il bollettino di guerra prosegue con 30 bombe non a grappolo ripescate a fine febbraio nel golfo di Venezia. Nel medio e basso Adriatico i piloti Nato hanno avuto pochi scrupoli. Tra Pesaro e Ancona, nei paraggi delle piattaforme metanifere, dalle quali il gas raggiunge la raffineria Api di Falconara, si sono liberati di «tre ordigni a grappolo e di una decina di bombe a guida laser, lunghe quasi tre metri e mezzo e pesanti una tonnellata», precisano i dati delle Capitanerie di porto marchigiane.
Mentre nella “Montagna del Sole”, a Rodi Garganico, San Menaio e Calenella, sono approdate tre bombe al fosforo di fabbricazione americana. I cacciamine? Chi li ha visti? Più a sud, nel Salento, cittadini e istituzioni locali non temono ripercussioni e cominciano a far sentire le proprie ragioni. Lo “Sportello dei diritti” della provincia di Lecce, infatti, lancia una campagna di sensibilizzazione sulla ignorata questione. «La guerra nei Balcani ha aggravato la situazione, già preoccupante a causa della presenza di ordigni imbottiti di iprite e fosgene - rivela Carlo Madaro, assessore al Mediterraneo -. La questione più paradossale è il rimbalzare di competenze tra apparati dello Stato, concretizzatosi in un indecoroso scaricabarile tra ministri e ministeri» Per questi motivi, conclude Madaro, «lo “Sportello dei Diritti” della provincia di Lecce ritiene doveroso rilanciare la questione del disinquinamento dell’Adriatico dai pericolosi ordigni e residuati bellici e interverrà presso tutte le competenti sedi, e in particolare presso il nuovo governo, affinché la questione sia valutata sotto un’ottica unitaria e sia implementata una bonifica globale delle acque del nostro preziosissimo mare».
Tante interrogazioni parlamentari sottolineano che «gli interventi di bonifica delle acque del Mar Adriatico conclusosi nell’agosto 2001, nonostante le dichiarazioni dei vertici della Marina militare, che garantirono il raggiungimento di un grande coefficiente di sicurezza, lasciarono gravi ombre su tutta l’operazione, contraddistinta sia dal segreto militare che da un’evidente impreparazione ad affrontare un’emergenza prevista e determinata dagli stessi organismi militari».


Mare Adriatico
A proposito di «uranio impoverito», la senatrice Celeste Nardini (Rifondazione) ha chiesto al ministro della Difesa Parisi, «se il governo non ritenga necessario assicurare un impegno straordinario per la bonifica delle aree contaminate al largo delle coste pugliesi e per misure di protezione sanitaria delle popolazioni». La parlamentare intende anche sapere «se il governo intenda impegnarsi da subito per la messa al bando di tutte le armi all’uranio impoverito, iniziando unilateralmente a vietarne l’uso nei poligoni d’addestramento e lo stoccaggio nelle basi militari, anche internazionali, collocate sul territorio nazionale». L’onorevole attende una risposta dal 23 gennaio scorso. Anche Left ha telefonato, invano, al ministro Arturo Parisi per ottenere chiarimenti: sarebbe opportuno rendere note le modalità e i risultati degli interventi di bonifica all’epoca effettuati. Tenuto conto che la Convenzione di Barcellona - dal 1995 - non consente la discarica definitiva a mare, nel Mediterraneo, di materiali che possono costituire pericolo per l’ambiente marino, per l’attività di pesca e per la navigazione e quindi l’abbandono definitivo di bombe o materiale esplosivo. Rilasci di tali materiali, accidentali o motivati da condizioni di emergenza o da incidenti, devono comportare azioni di recupero, messa in sicurezza e bonifica delle aree interessate con verifica dei danni e conseguente azione di risanamento.
«Non è possibile pensare che i ministri europei non sapessero nulla dell’uso di proiettili all’uranio impoverito», afferma Massimo Cocchi, docente di biochimica della nutrizione allo Scottish Agricultural College di Edimburgo. Nel 1999, una lettera aperta inviata dall’allora ministro federale dell’Agricoltura della Repubblica Jugoslava, Jagos Zelenovic, ai colleghi dei Paesi dell’Unione Europea, denunciava il disastro ecologico causato dai ripetuti raid aerei della Nato. In particolare si segnalava l’uso sistematico di proiettili all’uranio impoverito da parte dei cacciabombardieri statunitensi A-10. «Per i prossimi 50 anni ne pagheremo le conseguenze», insiste il professor Cocchi.
Danni ambientali la cui entità è stata dimenticata, ben sapendo che l’effetto del disastro causato non è immediato. Documenti ufficiali della Nato dimostrano come fosse evidente, fin dai raid contro la Bosnia del ’95, l’utilizzo dell’uranio impoverito. L’operazione venne battezzata Deliberate Force e un lungo rapporto descrive nei dettagli gli 11 giorni di bombardamenti, fra l’agosto ed il settembre ’95. La relazione è presente alla biblioteca pubblica della marina degli Usa e sul sito di Afsouth(www.afsouth.nato.int), il comando Nato per il Sud Europa con sede a Bagnoli, fin dal 1997 e venne rese nota nell’ottobre ’95. Il vicecomandante della base era il generale italiano Duilio Mambrini. Nell’allegato 2 del rapporto vengono elencati, divisi per nazionalità, le decine di aerei che parteciparono alle missioni sui cieli della Bosnia. Gli Usa, che hanno compiuto 2.318 sortite, il 65,9 per cento del totale, schieravano ad Aviano uno squadrone di 12 ammazzacarri A-10. Il rapporto elenca nell’allegato 3, genere e numero di ordigni utilizzati, compresi 10.086 proiettili Pgu-14 Api, imbottiti d’uranio impoverito. Il dato si differenzia dal totale rivelato dal ministro Mattarella, di 10.800 colpi, perché mancano i dardi utilizzati durante la precedente operazione Deny Flight nel ’94. I generali italiani sapevano. Il generale Andrea Fornasiero (ex Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) il 29 agosto ’95 riceveva dalla Nato l’ordine di eseguire il piano d’attacco sulla Bosnia. Fornasiero era comandante della V Forza aerea tattica alleata a Vicenza, responsabile per la pianificazione e la gestione dei bombardamenti sulla Jugoslavia.

CON TANTI RINGRAZIAMENTI DA PARTE DELLA NATO. Mentre i top gun italiani bombardavano il Kosovo, il governo rassicurava: «La nostra è solo un’attività di difesa integrata».
«Voglio confermare dinanzi al Parlamento che il contributo specifico delle Forze armate italiane è limitato alle attività di difesa integrata del territorio nazionale». Così parlò il presidente del ConsiglioMassimo D’Alema il 26 marzo 1999, ovvero il secondo giorno di guerra in Kosovo e in Serbia. «Vengo in Parlamento a dire le cose come stanno, e soprattutto cosa il governo possa realisticamente fare, e non a indicare equilibri alchemici o a ricercare soluzioni verbali. Potremmo annunciare che ci ritiriamo, ma non possiamo decidere da soli di sospendere la guerra. Perché per farlo serve l’intesa con la Nato, i serbi, l’Uck». Così si espresse D’Alema: il calendario segnava il 19 maggio. Dopo 58 giorni di guerra italiana all’ex Jugoslavia, i velivoli dell’Aeronautica militare avevano già compiuto un migliaio di sortite, bombardando gli obiettivi nella regione di Pristina e le colonne del terzo Corpo d’armata serbo, tra Nis e il Kosovo. In sostanza, benché il governo continuasse a parlare di «difesa integrata», i top gun italiani erano in pieno conflitto bellico. Ponti, caserme, edifici pubblici, ferrovie e strade sono stati colpiti anche dai nostri aerei. L’Aeronautica militare italiana ha partecipato a tutte le incursioni pianificate dal Comando della Nato, e gestite dalla Quinta Ataf (Allied tactical air force) di Vicenza. Con ben 54 jet messi a disposizione della Nato, l’Aeronautica tricolore è stata la più importante forza aerea coinvolta nelle operazioni belliche, seconda soltanto allo schieramento degli Stati Uniti. Durante le ultime settimane del conflitto, gran parte degli aerei è stata trasferita nelle basi pugliesi (Gioia del Colle e Amendola) per dimezzare i tempi delle operazioni. Una decina le missioni effettuate ogni giorno dai piloti italiani, a bordo di Tornado e Amx, portate a termine con «intelligente precisione», come testimonia il carico bellico imbarcato da ogni velivolo limitato a una bomba a guida laser da 450 chilogrammi, “Paveway”. In qualche caso i velivoli italiani sono rientrati alla base senza aver potuto sganciare il loro micidiale carico, a causa del maltempo, o semplicemente perché i bersagli erano stati distrutti da altri aerei. Ovviamente, non prima di essersene liberati nell’Adriatico. 
Per saperne qualcosa di più è sufficiente guardare un filmato della Cnn che l’8 maggio 1999 ha trasmesso un briefing del generale Chuck Wald dell’Usaf, durante il quale sono state mostrate le immagini di un deposito di munizioni dell’esercito serbo in Kosovo mentre veniva centrato da una bomba a guida laser, lanciata da un Tornado italiano. L’alto ufficiale americano ha colto l’occasione per esprimere apprezzamento e soddisfazione per l’impegno e la precisione dei piloti italiani, complimenti ribaditi durante la sua visita a Gioia del Colle, in provincia di Bari, dallo stesso generale Wesley Clark. Dai partner atlantici D’Alema ha ottenuto chiarimenti e piena soddisfazione, a suo dire, sulla questione delle bombe buttate in Adriatico dai piloti alleati. Per la prima volta, la Nato ha comunicato all’Italia il numero esatto, 143 ordigni, e le coordinate delle aree nella quali sono state rilasciate. Peccato che la cifra sia sottostimata, come hanno evidenziato in seguito i numerosi ritrovamenti. Da Bruxelles il presidente del Consiglio ebbe a dire ai cronisti che «ora l’Italia è in grado di valutare in modo compiuto la pericolosità di questo fenomeno,  che ha creato allarme nel Paese». Secondo D’Alema, «le bombe nell’Adriatico certamente non rappresentano un pericolo per il turismo, perché sono state rilasciate a una distanza minima di 30 miglia dalla costa». Da Solana in quell’occasione (20 maggio ’99) arrivò la promessa, non mantenuta, della partecipazione della «Nato alla bonifica dell’Adriatico, inviando dei dragamine alleati nelle aree di scarico degli ordigni».
Nel 2000, la commissione Ambiente del Senato, su proposta del senatore diessino Lorenzo Forcieri (attuale sottosegretario alla Difesa) approvò un provvedimento che prevedeva «l’affondamento nei mari italiani di relitti militari e carcasse di navi e cargo per trasformarle in percorsi turistici sottomarini per subacquei». Il governo italiano sapeva anche dell’uranio impoverito. Nella seduta del Senato del 27 luglio ’99, nel corso della quale si discuteva la conversione in legge del decreto che prorogava la missione italiana nei territori dell’ex Jugoslavia, la senatrice diessinaTana De Zulueta prese la parola per chiedere che il governo italiano si facesse parte dello sforzo per affrontare i danni derivanti dall’uso dell’uranio impoverito, domandando che lo stesso diventasse protagonista della battaglia internazionale per mettere al bando le armi pericolose: «Vi sono già gli elementi scientifici sufficienti per considerare rischioso per l’ambiente il rilascio di queste sostanze, a causa dei noti effetti cancerogeni e dell’impatto sul sistema cromosomico dei giovani». Il gruppo diessino applaudì. Molti senatori scesero dal loro banco per stringere la mano a De Zulueta. Gli atti parlamentari registrarono le congratulazioni, e il sottosegretario diessino Massimo Brutti accettò l’ordine del giorno sottoscritto da De Zulueta e dal presidente diessino della commissione Esteri del Senato, Gian Giacomo Migone. Nel testo si diceva che l’inquinamento da uranio impoverito, «per tempi di decadimento e rischi radiologici e tossicologici, può creare seri problemi a lunga scala temporale - una decina di anni - alla salute degli strati più giovani della popolazione sotto forma di un aumento di malattie, tipo leucemie». Parole chiarissime, scritte nero su bianco negli atti parlamentari. Insomma, il governo D’Alema - almeno grazie alla senatrice De Zulueta - sapeva. E, per una volta, Tana non libera tutti.

I conti della Nato - Sul Kosovo 22.000 tonnellate di esplosivo. L’opinione comune è che la guerra del 1999 in Jugoslavia sia stata fatta per fermare una strage di civili, una pulizia etnica in corso. Ma i dati sui costi della guerra, sfornati dalla Nato, mostrano anche l’altra faccia della medaglia. Tra marzo e maggio 1999, l’Alleanza atlanticaeffettuò circa 7.000 missioni per un totale di 78 giorni di bombardamento. Sono state sganciate bombe per un totale di 22.000 tonnellate di esplosivo (compresi 31.500 proiettili all’uranio impoverito). Gli effetti immediati sono stati: 676 militari jugoslavi uccisi, circa 2.500 civili assassinati e 6.000 feriti, di cui molti per bombe al fosforo e a grappolo. La cosiddetta “guerra chirurgica” ha provocato perciò 4 morti civili innocenti per ogni militare ammazzato. Sono stati distrutti o danneggiati: 77 obiettivi industriali, 39 energetici, 16 raffinerie ed impianti chimici, 18 complessi agricoli,41 ponti su strade provinciali, 14 ponti ferroviari importanti, 6 stazioni ferroviarie, 16 linee ferroviarie principali, 6 viadotti, 4 stazioni di bus, 4 uffici postali, 2 porti fluviali, 120 tra ospedali e case di cura, 327 scuole elementari (120 nel Kosovo), 100 scuole medie (20 nel Kosovo), 26 facoltà universitarie (4 nel Kosovo), 15 scuole secondarie superiori e 20 ostelli studenteschi, 19 stazioni televisive e ripetitori, 7 aeroporti, 24 monasteri, 33 chiese, 16 monumenti e 25 centri città. I costi affrontati dalla Jugoslavia ammontano a 146 miliardi di euro, mentre quelli della Nato a 1,7 miliardi di euro. Le conseguenze ambientali e sulla salute delle popolazioni colpite non sono state ancora valutate.  

Il killer spietato - «L’aumentata incidenza di alcuni tipi di cancro e malformazioni genetiche verificatasi dopo la guerra del Golfo nel sud dell’Iraq è ormai accertata». A tracciare il quadro dei rischi del “metallo del disonore” è il professor Sandro Degetto, dell’Istituto di chimica e delle tecnologie organiche e dei materiali avanzati del Cnrdi Padova. Degetto ha analizzato i rischi per l’organismo umano, in particolare sui gravi casi di insufficienza renale nonché la comparsa di proteine, glucosio e creatinina nelle urine. In presenza di dosi molto elevate l’intossicazione acuta può portare a danni irreversibili e alla morte. I valori di massima concentrazione ammissibili nel rene sono compresi tra 150 e 3.000 nanogrammi di uranio per chilogrammo di tessuto renale.
Per gli usi bellici il pericolo principale per la popolazione è dato dalle elevate concentrazioni di Du (Depleted uranium) che potrebbero essere inalate immediatamente dopo l’impatto dei proiettili. Per le bombe inesplose e sganciate nell’Adriatico, il ricercatore calcola che «un chilometro cubico di acqua marina contenga circa 3 tonnellate di uranio». Si può quindi osservare che una bomba inesplosa rappresenta un pericolo notevole. «Gran parte della letteratura scientifica - dice Mauro Cristaldi, docente del Dipartimento di biologia animale dell’università La Sapienza di Roma - evidenzia i danni da contaminazione da uranio impoverito e contrasta la minimalizzazione del rischio portata avanti dai governi e dalla stessa International atomic energy agency». 
Molte delle prove sulle conseguenze dell’uso dell’uranio impoverito provengono dall’Iraq. Il professor Albrecht Schott, chimico del World Uranium Center di Berlino, nelle sue ricerche ha scoperto «la capacità mutagena dell’uranio impoverito, evidenziando la capacità di formare rotture a doppia elica sul Dna senza possibilità di riparo». E i possibili effetti di un’informazione genetica alterata sono noti: tumori e leucemie, ma anche la trasmissione di un carico genetico alterato sulle generazioni future.

La battaglia navale del Francesco Padre - Non solo bombe. L’Adriatico è stato anche teatro di giochi di guerra della Nato. Afarne le spese cinque pescatori italiani (Giovanni Pansini, Luigi De Giglio, Saverio Gadaleta, Francesco Zaza, Mario De Nicolo): i primi 4 risultano ancora abbandonati in fondo al mare, il quinto venne a galla subito dopo l’incidente. Adesso non vi sono più dubbi: la notte del 4 novembre 1994 ad affondare il peschereccio Francesco Padre di Molfetta nelle acque internazionali di fronte alla Puglia, è stato un ordigno bellico targato Nato. Lo provano un’esercitazione dell’Alleanza Atlantica dagli esiti secretati, una perizia chimica, quattro relazioni tecniche. L’ispezione, filmata con un Rov a 243 metri di profondità, mostra oltre ai cadaveri, un relitto integro, se non per uno squarcio a poppa via sinistra, provocato da un vettore esplosivo esterno. Sulla vicenda tuttora pesa il più ferreo segreto di Stato, imposto dall’Autorità nazionale per la sicurezza.

Nell’area dove pescava il Francesco Padre - zona di rilascio delle bombe Nato a partire dal 1992 - era in corso l’operazione Sharp Guard. Oltre ad un velivolo dell’Usaf e alle corvette italiane Fenice e Sagittario, stazionavano le unità da guerra Uss Yorktown, Hmcs Toronto, Sps Tramontana, Hnlms De Reuyter, Sps Baleares, ed altre non ancora identificate. La magistratura non ha mai acquisito il filmato dell’affondamento nautico, i tracciati radar registrati dalle navi e dagli aerei (soprattutto dagli Awacs) che perlustravano l’Adriatico 24 ore su 24. Non sono state mai richieste al Pentagono le fotografie satellitari o i rapporti integrali delle unità da combattimento. E nessun giudice ha mai osato domandare alla National Security Agency copia delle registrazioni radio e telefoniche intercettate da Echelon in quel frangente. I testimoni oculari dell’esplosione, i piloti nordamericani a bordo del velivolo P3c Orion non sono stati mai identificati. E neppure il viceammiraglio José A. Martinez Sainz- Rosas, comandante della fregata spagnola Baleares è stato mai interrogato. Nonostante la mole di prove, la procura della Repubblica di Trani (pm Elisabetta Pugliese e Giancarlo Montedoro, gip Giulia Pavese) ha archiviato il caso. Il procuratore aggiunto Pasquale Drago si oppone alla riapertura delle indagini poiché «un eventuale recupero dello scafo adagiato su di un profondo fondale marino - a parte gli elevati costi dell’operazione - si muoverebbe nella stessa direzione della mera ricerca delle cause del sinistro, avulsa da qualsiasi concreta prospettiva di pervenire alla identificazione di eventuali responsabili». Bastava scavare un po’ per scoprire che si era già sfiorata la tragedia: l’11 luglio ‘93, il Francesco Padre, mentre era impegnato nella pesca in Adriatico, venne forzatamente rimorchiato per circa 1,5 miglia verso est-nord- est da un sommergibile Usa, a propulsione nucleare (NR1), dedito alla guerra elettronica. La barca italiana subì una forte inclinazione, tanto da sfiorare l’affondamento. Fortuitamente il cavo d’acciaio «agganciato» dal natante sommerso si spezzò, liberando il peschereccio. 

Nei documenti acquisiti da Left risulta che, su iniziativa di organi Nato, il comandante del Francesco Padre venne indennizzato a condizione di non rivelare nulla. Ai familiari delle vittime in attesa di verità e giustizia, il governo aveva elargito sulla carta (decreto 1105 del 7 dicembre 1994) un aiuto economico: la misera somma di 50 milioni a famiglia che, però, non è stata mai erogata.


La mia inchiesta del 16 marzo 2007:




una delle tante interrogazioni parlamentari sulla bombe proibite:


Post scriptum: Mi occupo da un ventennio di ricerca in mare di ordigni chimici e nucleari. Ho pubblicato fino ai giorni nostri diversi contributi per far luce su questa verità occulta e sottoposta a segreto militare e di Stati Nato (USA). Il mio impegno è culminato nel 2012 con il libro IL GRANDE FRATELLO. STRATEGIE DEL DOMINIO. Questo volume contiene un corposo capitolo documentato, dal titolo BOMBE AMARE (pagine 97- 134). 

Eccone alcuni esempi concreti. La prima indagine giornalistica l'ho realzzata nel 1998-1999, pubblicata il 6 giugno 1999  dal settimanale Avvenimenti ed intitolata "La mappa della paura". In seguito il quotidiano Liberazione ha pubblicato il 10 febbraio 2000, un'altro mio approfondimento dal titolo: "Adriatico: mare di bombe e di bugie". Poi, il 7 dicembre 2001 è stata la volta del settimanale Diario con l'inchiesta "Un mare pieno di bombe". Inoltre, nel 2005, il settimanaleFamiglia Cristiana ha pubblicato l'ennesimo approfondimento intitolato "La Guerra dei pescatori". Inoltre, il 16 marzo 2007, il settimanale LEFT, allora diretto dall'amico Andrea Purgatori, ha pubblicato la voluminosa inchiesta ivi riprodotta integralmente. Sulla base di questo faticoso lavoro di ricerca, nel corso delle varie legislature sono state presentate numerose interrogazioni parlamentari, alle quali i governi italiani, tuttavia, non hanno mai dato risposte! Due nazioni, in modo particolare, USA & Gran Bretagna, al termine della seconda guerra mondiale hanno realizzato nel Mare Adriatico e nel Mar Tirreno 4 immense discariche di ordigni proibiti dalla Convenzione di Ginevra del 1925 (bombe che intendevano utilizzare contro il nemico nazifascista). In Italia, a Pantelleria ed in Emilia, è stato sperimentato per la prima volta, contrariamente a quanto comunemente si ritiene, il micidiale napalm.

Sul tema delle bombe proibite nel 2010 ho concesso al canale televisivo internazionale Russia Today   un'intervista andata in onda il 17 gennaio 2011:

 http://rt.com/news/features/italy-nato-toxic-waste/

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