Anna Lombroso per il Simplicissimus
Vi ricordate i bei tempi quando esistevano ancora le calamità naturali e i tg mandavano in onda le edizioni speciali, Mara Venier era costretta a trascurare gossip e delitti, la gente credeva ancora che il burbero Bertolaso fosse efficiente e la dinamica Protezione Civile fosse al servizio dei cittadini?
Una volta appreso che le la natura è matrigna perché è incazzata con gli uomini, la calamità è retrocessa al ruolo di maltempo, la catastrofe viene chiamata eufemisticamente perturbazione, gli sfollati apostrofati di essere abusivi, le notizie precipitano in fondo alle pagine, comprese quelle online, che sostituiscono le informazioni con repertori iconografici. È che uno vorrebbe anche dati, i quotidiani non sono Playboy che giustamente dà più rilievo alle immagini, continua a piovere e a nevicare e non ci resta che cogliere i commenti della strada, allagata, o, fior da fiore, qualche rara illuminante intervista di Rai3 che sciorina disfattisti incontentabili che invece di godere dei successi internazionali del governo si lagnano di essere stati abbandonati completamente, che parlano del ripresentarsi delle “inondazioni” a ogni pioggia, che lamentano l’assenza non solo della prevenzione, ma addirittura di procedure e sistemi di allerta per non dire della “riparazione”.
Le zone di crisi punteggiano la cartina d’Italia, ma per la stampa esiste una gerarchia mediatica dei territori di seria A, quelli di probi cittadini lavoratori, soprattutto al Nordest e quelli di serie B, dove si sa che i meridionali sfaccendati hanno lasciato fare più alla criminalità che alla natura, dimenticando che ormai tutto il Paese è Sud, ovunque l’ambiente è stata trascurato, saccheggiato, oltraggiato, sfruttato. E anche in questo unanimemente sia pure tenendo conto delle disuguaglianze e di classi e ordini di interessi: speculatori, aziende rapaci, cementificatori, opere pubbliche, aziende agricoli e allevamenti intensivi, comuni sleali, giù giù fino agli autori dei piccoli abusi, per necessità o incuria o avidità.
Fino a un po’ di tempo fa ogni inverno il mio pc era costretto a produrre in serie un pezzo sul dissesto idrogeologico, sugli effetti della colpevole incuria e dell’incompetenza dei governi e delle amministrazioni locali, combinate con interessi opachi, corruzione, clientelismo, voto di scambio. adesso anche l’estate si presta alla replica della denuncia sempre più stanca e delle proposte sempre più inascoltate.
Ormai almeno due volte all’anno le piogge intense, anche imputabili al cambiamento climatico che surriscalda il pianeta, fanno uscire l’acqua dagli argini di fossi, torrenti, fiumi, sulle colline e nelle pianure, allagano e distruggono sottopassi, strade, campi coltivati con i loro faticati raccolti, fabbriche e abitazioni, strade e ferrovie.
Ormai due volte all’anno di ripete lo scambio di accuse e il rimpallo di responsabilità , sempre più fioco grazie alla correità degli attori delle larghe intese e limitato alla condanna di colpe remote nel tempo.
Ormai due volte all’anno il mantra è sempre lo stesso: non ci sono più fondi e comunque la priorità è sempre un’altra, c’è sempre da coprire qualche voragine più profonda e incolmabile di quella creata dalla pioggia e dagli smottamenti, c’è da tener fede ai patti iniqui sottoscritti con l’Europa, c’è da dar retta a chi attribuisce la crisi a costumi statali e collettivi dissipati che scontiamo coi piedi nell’acqua.
Ormai due volte all’anno ripetiamo che nel nord e al centro e nel sud d’Italia, le alluvioni fanno danni da trent’anni a questa parte, mentre i governanti emanano e correggono o alterano continuamente farraginose leggi sulla difesa del suolo, creano agenzie che assicurano appalti per opere che saranno spazzate via o che non verranno mai realizzate o che una volta avviate sarannno già obsolete.
Ormai due volte all’anno si ripropone la necessità indilazionabile di rivedere il sistema di autorizzazioni e permessi urbanistici e edilizi che consente l’edificabilità a costruzioni e opere che intralciano il moto “naturale” delle acque, concessi per fare cassa per i comuni o per amministratori corrotti. E insieme si ricorda il New Deal di Roosevelt, o le ipotesi lanciate da Ernesto Rossi nel suo “Abolire la miseria”, o quelle dell’agenzia del lavoro di Paolo Sylos Labini, tutte indirizzate a impegnare lo Stato e le amministrazioni come general contractor di opere di risanamento del territorio grazie a un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell’economia, che creerebbe occupazione e svilupperebbe innovazione e tecnologia.
Ormai due volte all’anno e oggi con particolare tenacia succede di ricordare che basterebbe risparmiare in catastrofi. Secondo l’ISPRA, frane e alluvioni, considerate insieme, hanno generato costi economici quantificabili in circa 30 miliardi di euro in 20 anni; stimando un “danno medio annuo” provocato da tali fenomeni, pari a 1,5 miliardi di euro/anno. In un lavoro del 2010 realizzato dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG) in collaborazione con il Cresme ) viene ricostruita la dinamica dei costi del dissesto idrogeologico in Italia tra il 1944 e il 2009, che calcola il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra ad oggi in circa 52 miliardi di euro. Mediamente, si tratta di circa 800 milioni di euro all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio era peraltro aumentata, assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui e che negli ultimi 5 anni è stata certamente incrementata.
Ma pare sia preferibile continuare a dire sì a fiscal compact e patto di stabilità per non fare la figura dei provinciali. Per poi farla, e da provinciali straccioni, andando dagli emiri col cappello in mano. Pieno di promesse e pieno di pioggia.
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